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ALCUNE SEMPLICI RICETTE
di Serena Ravaglioli
Usate nel Medioevo, ma utilizzate ancora oggi.

I piccoli arrosti

Ricette già note e pubblicate, qui le abbiamo realizzate in un'unica sera e per la prima volta alla brace, una cottura che ci avvicina sicuramente al metodo di cottura originariamente previsto per queste ricette. Ho scelto degli arrosti di piccolo taglio perché non riesco ad immaginare grossi tagli allo spiedo in una osteria....... Inutile dire che queste ricette sono state tutte enormemente apprezzate!



Carbonata (Maestro Martino)

Ingredienti

8 fettine di pancetta salata spesse circa ½ cm
zucchero
cannella
prezzemolo
succo d’arancio amaro (o 1 arancio + un limone)

Preparazione

Mettere le fettine di pancetta sulla brace o una bistecchiera ben calda, farla rosolare bene da entrambi i lati. Servire a tavola molto calde cosparse di zucchero, cannella e succo di arance. Anche questa è una ricetta che stimola la sete, dice Martino: ”et farratte meglio bevere”.



Polpette di vitello ( Maestro Martino)

Ingredienti

8 fettine di carne di vitello
100 g di lardo pancettato
Prezzemolo
Maggiorana
Mix di spezie:
½ cucchiaino di cannella
1 cucchiaino di zenzero
½  cucchiaino di macis pestato
1 cucchiaino di pepe nero
1 cucchiaino di semi di finocchio pestati

Preparazione:

Servendovi del batticarne, appiattite delicatamente le fettine di manzo. Tritate finemente la maggiorana e il prezzemolo e uniteli al lardo sminuzzato. Preparare il mix di spezie mescolando tutti gli ingredienti e aggiungerne a piacere al trito di lardo ed erbe. Amalgamate con cura e spalmate il composto su ciascuna fettina di manzo, quindi arrotolate e fissate con gli stuzzicadenti.
Mettete sul fuoco un tegame con un filo d’olio, rosolate per bene gli involtini e, quando risulteranno dorati, aggiungete un mestolo di acqua o brodo. Salate, coprite e lasciate cuocere a fiamma bassa per altri 15 minuti circa. Gli involtini si possono cuocere anche alla brace o al forno, stando attenti che non secchino troppo.




Coppiette Romane (Maestro Martino)

Ingredienti

600 g di polpa di manzo
100 g di lardo
1 cucchiaio abbondante di semi di coriandolo
Sale grosso
Spiedini di legno o di metallo


Preparazione

Tagliare la polpa di manzo a pezzi "grandi come due uova" e inciderli nel mezzo senza giungere a staccarli. Inserire nelle incisioni dei pezzi di lardo. Inserisci due o tre pezzi di carne su ogni spiedino. Pesta insieme, nel mortaio, il sale grosso e i semi di coriandolo, utilizza questo composto per spolverare gli spiedini ottenuti. Cuoci in forno caldo o sulla brace.

I brodetti di pesce

Tre brodetti di pesce ben riusciti e gustosi. L'unico ad essere un vero e proprio piatto da taverna è lo schibece, denominato proprio "a tavernaio" già nel titolo della ricetta. La preparazione dello scapece o del carpione (molto simili) sono anche oggi propri della cucina italiana anche se con alcune modifiche intervenute nel corso dei secoli. Sicuramente la tecnica di cottura e la presenza dell'aceto nella marinata permettevano al pesce di conservarsi a lungo per essere utilizzato nel momento del bisogno, l'ideale da tenere a portata di mano per un tavernaio! Ecco le tre ricette della serata!




Cozze in brodetto (Forme of Cury)

Ingredienti:

1 kg di cozze
2 cipolle
250 g di mollica di pane
10 cl di aceto
1 bustina di zafferano
Pepe
Noce moscata
Chiodi di garofano


Preparazione:

Pulire esternamente le cozze, eliminando ogni incrostazione. Metterle in un tegame con 1/2 bicchiere d'acqua, e quindi sul fuoco per 10 minuti circa a fiamma bassa. Recuperare le cozze (eliminando le valve), e l'acqua di cottura che va filtrata. Disporre le cozze in una pirofila facendo un unico strato.  Mescolare l’aceto con le spezie e qualche cucchiaio di acqua di cottura delle cozze. In un tegame con abbondante olio fare dorare la cipolla, aggiungere la mollica di pane precedentemente bagnata con la miscela di aceto e spezie e far asciugare un pochino mescolando per non far bruciare il composto. Togliere dal fuoco e cospargere le cozze con la panure ottenuta.



Seppie al nero

Ingredienti:

1 kg di seppie
1 porro
1 mazzetto di menta
1 mazzetto di prezzemolo
Qualche foglia di salvia
1 cucchiaino di spezie forti

Preparazione:

Pulire le seppie e farle cuocere in acqua fredda per quindici minuti. Scolarle e tagliarle a strisce sottili. Pulire il porro e tritarlo finemente insieme alle erbe aromatiche. Scaldare dell’olio d’oliva in un tegame e soffriggere brevemente le seppie che dovranno colorirsi. Abbassare la fiamma al minimo aggiungere il trito aromatico, spolverare di sale e spezie e cuocere a fuoco dolce per una ventina-trenta minuti, mescolando spesso. A fine cottura aggiungere il nero di seppia e il latte (se lo avete) mescolare bene e servire.



Schibezia a tavernaio

Ingredienti:

800 g – 1 kg di pesce (naselli, merluzzetti, sgombri ecc.)
3 cipolle
1 litro di vino (rosso o bianco, a seconda del colore che si vuole ottenere)
¼ di litro di aceto di vino
6-7 stigmi di zafferano
½ cucchiaino di grani di cumino
½ cucchiaino di pepe nero in polvere
Sale

Preparazione:

Mescolare il vino con l’aceto, aggiungere il sale e portare ad ebollizione. Mettere il pesce in questa miscela acetosa e cuocere dai sei ai quindici minuti, secondo la grandezza dei pesci, mantenendo il liquido al limite dell’ebollizione. Togliere il pesce dall’acqua con la schiumarola e, facendo molta attenzione a non romperlo, metterlo in un recipiente fondo, preferibilmente di terracotta. Rimettere sul fuoco il liquido di cottura, aggiungere le cipolle tagliate a rondelle e  restringere a fuoco lento per circa mezz’ora. Togliere dal fuoco e aggiungere le spezie (cumino, pepe e zafferano) al liquido. Versare sul pesce e fare raffreddare: il fondo si dovrebbe rapprendere e gelificare. Servire freddo.


Il quinto quarto

Rimanendo in tema "osteria" ho pensato che ingredienti come questi, di facile reperibilità e poco costosi, potessero essere plausibili anche se la loro deperibilità è elevata... In ogni caso erano ricette che non avevo mai provato e la curiosità ha vinto!

Queste due ricette sono piuttosto semplici e vicine anche alla tradizione culinaria odierna di alcune regioni italiane che utilizza il brodetto legato da uova per la cottura delle interiora. Il risultato ci ha piacevolmente stupito.

Nella stessa lezione abbiamo anche realizzato altre ricette.



Sfresurato (Anonimo Napoletano)

Ingredienti

600 g di coratella di agnello o capretto
100 g di prosciutto crudo
Un mazzetto di prezzemolo
Un mazzetto di maggiorana
Zafferanno
Agresto
Acqua di rose
Un cucchiaino di zucchero
3 uova
50 g di lardo macinato
Brodo di carne q.b
Sale e pepe

Preparazione

Pulire la coratella, quindi versarla in una pentola d'acqua e portarla a bollore schiumando di tanto in tanto. Fare cuocere per 10 minuti, quindi scolare i pezzettini e lavarli sotto l'acqua fredda. Tritare la coratella a pezzi molto piccoli, poi pulire e tritare il prezzemolo e la maggiorana, mescolarli insieme alla coratella in una ciotola. Nel frattempo sciogliere in una padella il lardo macinato e rosolarvi, a fiamma vivace, il prosciutto tagliato a pezzettini. Versare nella padella la coratella e le erbe aromatiche farla rosolare, aggiungere una parte del brodo, salare e abbassare la fiamma. Portare a cottura la coratella aggiungendo brodo se necessario. Battere le uova con l’agresto, l’acqua di rose, lo zafferano, il pepe e il cucchiaino di zucchero. A cottura ultimata versare nella salsa le uova sbattute, fare rapprendere e servire.



Delle gualdraffe di ventri e caldumi (Ms 158)

Ingredienti

700 g di trippa lessata1 cipolla
100 g di lardo
3 tuorli d’uovo
2 fette di pane
Spezie dolci
Menta
Prezzemolo
Salvia
Olio
Sale
pepe
Brodo q. b.

Preparazione

Tagliare a striscioline la trippa. Tritare il lardo e le erbe aromatiche. Tritare la cipolla. Scaldare una pentola con poco olio e mettervi a rosolare la cipolla con il lardo. Aggiungere la trippa e cospargerla con le erbe aromatiche e le spezie. Quando si è rosolata, salarla, coprirla con il brodo e portarla a cottura. Nel frattempo togliere la crosta alle due fette di pane e bagnarle con dell’acqua, ridurle in poltiglia e mettere da parte. Battere i tuorli d’uovo e aggiungerli alla trippa insieme alla mollica di pane, quando le uova si sono addensate portare a tavola (volendo si può cospargere di formaggio grattugiato).

Le uova e altre ricette improvvisate

In molti a lezione mi avevano richiesto delle ricette a base di verdure e quindi ho deciso di accontentarli! Complice l'incipiente primavera mi sono dedicata a porri, asparagi e fave arrichiti però dalla presenza di spezie o di uova che da sole, le verdure, non sarebbero state degne di comparire nei ricettari.... Ne è uscita una lezione che combina la disponibilità dell'orto allo spirito di improvvisazione, con pochi ingredienti dei piatti molto molto gustosi!

In particolare mi ha stupito la preparazione dei porri: un piatto decisamente piacevole e molto contemporaneo, da provare e riprovare!





Matta fame (Maestro Martino - Ms. Bulher n.19, Morgan Library)

Ingredienti

6 uova
100 g prosciutto crudo
1 cipolla
lardo macinato quanto basta
1 mazzetto di maggiorana fresca
1 mazzetto di prezzemolo
zafferano
1 cucchiaino di spezie dolci

Preparazione

Tagliare il prosciutto a striscioline e metterlo da parte. Rompere le uova in un piattino per verificarne la freschezza. Versare le uova in una ciotola e sbatterle per pochi secondi. Tritare prezzemolo e la maggiorana e mescolarle alle uova sbattute insieme allo zafferano e alle spezie dolci. Tritare anche la cipolla e farla soffriggere in una padella dove si è precedentemente fatto scioglier il lardo macinato. Appena la cipolla si è dorata versare nella pentola il composto di uova ed il prosciutto. Portare a cottura mescolando spesso con un cucchiaio di legno.




Di cipolle (Ms. 158 Bibl. Univ. di Bologna)

Ingredienti

6 uova
6 cipollotti freschi
100 g di parmigiano o grana
Olio
Sale
Pepe
Zafferano
Zenzero, cannella e noce moscata a piacere

Preparazione

Pulire e lavare accuratamente i cipollotti. Tagliarli a pezzi piccoli utilizzando sia la parte vede che quella bianca e metterle a rosolare in un tegame con poco olio. Nel frattempo rompere le uova in un piattino per verificarne la freschezza versarle in una ciotola e sbatterle per pochi secondi assieme allo zafferano, al pepe e al parmigiano grattugiato. Quando i cipollotti sono diventati trasparenti versarvi sopra il composto di uova e formaggio e portare a cottura mescolando. Volendo cospargere con altre spezie a piacere.



De' porri (Ms. 158 Bibl. Univ. di Bologna)

Ingredienti

1 kg di porri
6 uova
120 g di formaggio a scelta (noi taleggio)
100 g di pane secco tritato grossolanamente
Sale
Pepe
Zafferano
Acqua
2 cucchiai di aceto

Preparazione
     
Togliete ai porri la parte verde, le radici e la guaina più esterna. Partendo dall'alto, praticate in ognuno un taglio verticale e lavateli bene sotto l'acqua corrente facendo attenzione a eventuali depositi di sabbia fra una guaina e l'altra. Tuffateli in acqua salata in ebollizione lasciandoli cuocere per una decina di minuti o meno se sono sottili. Scolateli bene e tagliateli a pezzi non troppo piccoli. Scaldare l’olio in una padella e porvi a rosolare i porri, salare e pepare. Quando sono dorati cospargerli con il pane e lo zafferano, tenere ancora qualche minuto sul fuoco fino a quando il pane si è leggermente colorito. Tagliare il formaggio scelto a fettine sottili. Preparate le uova in camicia: fate bollire circa quattro dita d'acqua in un tegame largo quindi unite l'aceto e abbassate la fiamma al minimo in modo che l'acqua sobbolla appena. Rompete un uovo in una tazzina e fatelo scivolare esattamente nel punto di ebollizione. Procedete nello stesso modo con le altre uova quindi, sempre tenendo la fiamma bassissima, fatele cuocere per circa tre minuti cercando, con una schiumarola, di raccogliere l'albume intorno al tuorlo. Se ne cuocete poche alla volta mantenete in caldo quelle già cotte immergendole in acqua tiepida salata. Quando tutte le uova sono cotte si procede con la composizione del piatto mettendo alla base i porri (scaldati se necessario) ricoprendo con fettine sottili di formaggio e infine con l’uovo in camicia e una presa di sale.



Sparaci (Ms. 158 Bibl. Univ. di Bologna)

Ingredienti

1kg di asparagi
2 cucchiai di olio di oliva
2 cipollotti freschi tritati
1 pizzico di noce moscata grattugiata
1 pizzico di zafferano
sale

Preparazione

Pulire gli asparagi eliminando la parte finale dura e fibrosa, lavare e sbollentare qualche minuto in acqua bollente, devono rimanere un po' croccanti senza piegarsi. Scaldare l'olio in una padella, rosolarvi i cipollotti senza colorirli, aggiungere gli asparagi e lo zafferano e il sale. Abbassare la fiamma e coprire lasciando sobbollire adagio per circa sette-dieci minuti. Girare pepare e aggiungere la noce moscata, lasciar insaporire ancora qualche istante e servire ben caldi.

brodo di fave



Fave (Ms. 158 Bibl. Univ. di Bologna)

Ingredienti

½ litro di brodo di manzo
2 kg di fave fresche
100 g di guanciale
1 cucchiaio di prezzemolo tritato fine
1 cucchiaio di menta fresca
Sale

Preparazione

Togliere le fave dal baccello e sbollentarle per qualche minuto. Raffreddarle passandole sotto l’acqua fresca, poi inciderle e sbucciarle una ad una. Tagliare il lardo a dadini e metterlo in una casseruola a sciogliersi leggermente aggiungere le fave, il brodo e  portiare ad ebollizione. Cuocere per circa quindici minuti o fino a quando le fave non iniziano a disfarsi. Aggiungere il prezzemolo e la menta tritati finemente. Riportare ad ebollizione per qualche minuto. Aggiustare il condimento e servire ben caldo.



Gli arrosti di pesce

Anche queste tutte ricette già realizzate e già pubblicate,  ma meritano un rinfreschino e una carrellata fotografica!



Calamari arrositi  (Ms. 158 Bibl. Univ. di Bologna)

Ingredienti

1 kg di calamari
100/150 g di lardo pancettato
1 arancia
olio evo
sale e pepe a piacere

Preparazione.......



Pesce arrostito (Ms. 158 Bibl. Univ. di Bologna)

Ingredienti

1 pesce a persona (sgombro, sarde, palamita)
1 mazzetto di prezzemolo
1 mazzetto di salvia fresca
olio d’oliva
miscela di spezie fini
sale

Preparazione

Pulire bene e lavare bene i pesci scelti. Aprirli dalla parte del ventre e togliere la lisca centrale, facendo attenzione a non tagliare la pelle esterna. Salare su entrambi i lati e far riposare per almeno 10 minuti. Spolverare la pelle con la miscela di spezie fini, poi ripiegare i pesci rovesciandoli, cioè facendo toccare la pelle del dorso. Inserire tra le due parti qualche foglia di prezzemolo e di salvia. Fermare gli “involtini” così ottenuti con dello spago da cucina, facendo in modo che le due parti aderiscano bene tra loro, ungerli con un po’ di olio d’oliva. Arrostire il pesce sulla graticola circa 5 minuti per lato. Servire immediatamente aggiungendo un filo di olio d’oliva e di sale se necessario.



Le salsicce


Questa è la lezione che abbiamo fatto sulle salsicce e gli insaccati, questa volta non lascio spiegazioni, l'arte della norcineria è antichissima e le ricette, oggi come ieri, numerose. Non se ne trovano forse moltissime nei ricettari ma le fonti sono piene di prosciutti, salsiccioni e salsicchie. Queste sono le tre ricette che abbiamo provato al corso, supportati, questa volta, grazie al Ristorante le Noci che ci ospita, da un'attrezzatura davvero ad hoc!!!!!



Salsicce (Anonimo meridionale)

Ingredienti

300 g di lombo di maiale
250 g di pancetta
budella per salsicce
½ bicchiere di vino rosso
Semi di finocchio pestati
Semi di coriandolo pestati
Bacche di mirto pestate
Alloro
pepe
11 g di sale

Preparazione

Tritate la polpa insieme alla pancetta di maiale grossolanamente con il tritatutto e raccogliete in una ciotola, dopodiché aggiungete il sale, il pepe, le spezie e il vino e mescolate bene e a lungo con le mani in modo da distribuire uniformemente gli aromi. Versare la carne nella macchina e servendosi dell'apposito spingitore, spingere la carne macinata nel tubo. Togliere con cura il budello dall'ugello mentre si riempie di carne macinata, stando attenti a non riempirlo troppo. Continuare in questo modo fino ad esaurimento della carne macinata, quindi fare un nodo all'estremità finale del budello e servendosi di un ago sterilizzato bucherellare il budello per far fuoriuscire eventuali bolle d'aria.



Salsicce alla romanesca (Ms. Western)

Ingredienti

300 g di lombo di maiale
250 g di pancetta
budella per salsicce
Semi di finocchio pestati
Semi di anice pestati
Chiodi di garofano
Galanga
Zafferano
Anice
Pepe
11 g di sale

Preparazione

Tritate la polpa insieme alla pancetta di maiale grossolanamente con il tritatutto e raccogliete in una ciotola, dopodiché aggiungete il sale, il pepe, le spezie e mescolate bene e a lungo con le mani in modo da distribuire uniformemente gli aromi. Ripetere il procedimento dell’insaccatura.





DOLCI

I Dolci nel Medioevo
Prof. Massimo Montanari - Bologna




servizio a tavola in taverna

l termine “dessert” proviene dal francese antico desservir, che significava “sparecchiare la tavola” o letteralmente il contrario di servire, ed è entrato in uso proprio durante il medioevo. In quest'epoca i cibi facilmente digeribili dovevano essere consumati per primi, seguiti gradualmente dai piatti più pesanti.  Prima del pasto, lo stomaco andava di preferenza aperto con un aperitivo(dal latino aperio, "aprire") che doveva di preferenza essere di natura calda e secca: confetti di spezie come zenzero, carvi e semi di anice, finocchio o cumino glassati con zucchero o miele accompagnati da bevande composte di vino addolcito e corretto con latte. Lo stomaco, così come veniva "aperto", doveva essere "chiuso" alla fine del pasto con l'aiuto di un digestivo di solito un confetto, servito con "ippocrasso", un vino caldo speziato, e pezzi di formaggio stagionato, mentre nel tardo medioevo aveva iniziato ad includere frutta fresca ricoperta di zucchero, miele o sciroppi con dolcetti a base di frutta cotta.
Esisteva nel medioevo un’ampia varietà di frittelle, crêpes zuccherate, budini, tortine e paste di sfoglia che talvolta potevano contenere della frutta, ma anche midollo o pesce. Nei paesi germanofoni erano particolarmente amati i krapfen, che venivano anch’essi farciti in vari modi. In Italia e nel sud della Francia era molto diffuso il marzapane che si ritiene sia stato introdotto dagli arabi. I libri di cucina anglo-normanni sono pieni di ricette per preparare budini dolci e salati, minestre, salse e torte con fragole, ciliegie, mele e prugne. I cuochi inglesi avevano un debole per l’impiego di petali di fiori come rose, violette e sambuco. Una prima versione della quiche si può trovare nel Forme of Cury, un ricettario del XIV secolo dove viene chiamata Torte de Bry ed ha una farcitura di formaggio e tuorlo d’uovo.
Nel nord della Francia si consumava un vasto assortimento di cialde e wafer, mangiati con formaggio e hypocras oppure un malvasia dolce come issue de table (piatto preso prima di lasciare la tavola). L’onnipresente zenzero candito, il coriandolo, l’anice e altre spezie venivano definite épices de chambre (spezie da salotto) e venivano consumate come digestivi alla fine del pasto per “chiudere lo stomaco”. I conquistatori arabi della Sicilia introdussero sull’isola una certa varietà di nuovi dolci e dessert che finirono per diffondersi in tutta Europa. Così come Montpellier, la Sicilia un tempo fu celebre per i suoi confetti e per il suo torrone. Dal sud del Mediterraneo gli arabi portarono anche l’arte di preparare il gelato che si tradusse nella nascita del sorbetto e altri dolci come la cassata siciliana (che deve il nome all’arabo qas’ah, il termine che designava la ciotola di terracotta in cui veniva modellata) fatta di marzapane, pan di Spagna e ricotta dolce, e i cannoli alla siciliana (in origine cappelli di turchi) fritti, tubi di pasta dolce e fritta riempiti di ricotta zuccherata.
Ricettari giunti fino a noi mostrano come nel tardo Medioevo l' arte culinaria ebbe uno sviluppo significativo. Nuove tecniche, come appunto l'uso della pasta frolla e la chiarificazione della gelatina per mezzo dell'albume d'uovo iniziarono a farsi strada verso la fine del XIV secolo e nello stesso periodo le ricette iniziarono a comprendere istruzioni dettagliate per l'esecuzione invece di essere semplici elenchi di ingredienti che servivano solo come aiuto mnemonico per cuochi già esperti.



i dolci in cucina

L’arte culinaria dell'Italia Settentrionale del XII secolo

La cucina è specchio della società.
Nei sec. XIII e XIV compaiono i primi libri di cucina.
Le fonti antecedenti sono scarse. Il documento più antico è un menu del XII sec. riferito alla realtà di Milano: si tratta della lista delle portate di un pranzo offerto dai monaci di un monastero milanese ai canonici della chiesa di San Satiro. Il pranzo è costituito da nove piatti, suddivisi in tre portate, pressoché tutti a base di carne (simbologia religiosa del numero tre nella religione cristiana). È un menu costruito “per accumulo” in cui la varietà delle carni e delle preparazioni ha il fine di soddisfare tutti i gusti. Il menù ci è pervenuto solo perché i canonici, insoddisfatti dell’ospitalità ricevuta, fecero causa al monastero e il testo è riportato nella sentenza conclusiva della controversia.
La carne è la protagonista principale della cucina medioevale (diversamente da quanto accadeva in epoca romana in cui era il pane ad essere prevalente) perché i trattati di dietetica medioevale, influenzati dalle consuetudini alimentari del mondo germanico, sostengono che è la carne l’alimento che nutre di più.
La carne è un elemento importante nell’alimentazione di tutte le classi sociali ed è presente anche sulle tavole contadine, grazie alla pratica dell’allevamento e della pastorizia.
Ma la carne è anche un segno del prestigio sociale e questo aspetto, col passare del tempo, acquista sempre più importanza. La carne, infatti, diminuisce sulle tavole povere nel momento in cui viene precluso ai contadini l’uso dei boschi che diventano riserve signorili.
Sulle tavole povere prevale il maiale nelle diverse preparazioni degli insaccati. Sulle tavole dei ricchi, invece, la carne, proveniente dalle attività di caccia, è fresca e varia.
Come si cucinava la carne? Sostanzialmente secondo tutte le modalità in uso ancora oggi, ma con una distinzione fondamentale: i bolliti sono tipici della cucina povera perché consentono di utilizzare tutto quello che la preparazione può dare, compreso il brodo, e richiedono una cottura lenta, che si svolge in casa ed è affidata alle donne; mentre gli arrosti sono una prerogativa delle tavole dei signori, rimandano all’idea di pratiche maschili legate al mondo della caccia (legna, fuoco, spiedo, aria aperta).
La carne è accompagnata dalle salse. Sono salse magre, a base di erbe, spezie, aceto, vino, agrumi; questi ultimi ingredienti costituiscono una base acida. Le spezie sono prerogativa della cucina ricca, ma non è vero che servissero a coprire il sapore della carne avariata in quanto, come si è visto, sulle tavole dei signori la carne era sempre disponibile, fresca e varia. Le spezie sono amate dai ricchi signori perché sono costose, danno prestigio, vengono da lontano (addirittura dai luoghi che nella geografia fantastica medioevale si pensava fossero la sede del paradiso terrestre). Sono dunque uno “status symbol” dell’epoca.
Le salse contadine invece sono a base di erbe (come la nostra salsa verde, ma senza olio).
Tratto centrale del gusto medioevale è la complessità, cioè la tendenza a mettere insieme sapori diversi: “una cucina sintetica” che tende all’agro/dolce/piccante (come la mostarda cremonese che può essere considerata un “fossile” della cucina medioevale).
Perché questa tendenza a mischiare? Perché i sapori rappresentano le qualità dei cibi che, nella loro diversità, contribuiscono a comporre l’armonia della natura. L’intento è dunque quello di ricreare tale armonia anche nelle preparazioni gastronomiche (è lo stesso principio su cui si fonda ancora oggi la cucina cinese, che si ispira all’equilibrio degli elementi Yin e Yang).
Per quanto riguarda i formaggi, a partire dal XII sec. cominciano a comparire prodotti di qualità per la cui preparazione viene utilizzato il latte vaccino, mentre nell’alto Medioevo il latte utilizzato era quello di pecora. Il più importante è il parmigiano, altrimenti detto lodigiano o piacentino a seconda dei luoghi di produzione. Fino al XII sec. viene consumato grattugiato sulla pasta condita con burro, cannella e zucchero (la prima ricetta di pasta al pomodoro è dell’800). La pasta (cibo di magro) è pasta fresca in area padana, mentre è secca nel Meridione (già nel XII sec. a Palermo è documentata l’esistenza di una produzione industriale).
 
Tipico alimento della cucina medioevale sono le torte che possono essere ripiene di carni, verdure o formaggi. Si può anzi affermare che la torta sia una vera e propria “invenzione” culinaria di questo periodo. Essa è presente in tutta Europa, soprattutto in Italia e ancor di più nell’Italia settentrionale. La diffusione dell’uso delle torte si spiega con la presenza nelle città di forni pubblici di uso comune: la torta è una soluzione pratica e comoda da trasportare, sia da cruda, sia una volta cotta.
Se consideriamo la cultura della pasta unita alla cultura delle torte, ci spieghiamo come sia nata la cultura dei tortelli, cioè delle paste ripiene (un trattato di cucina medioevale ne attribuisce l’invenzione a una contadina padana).
Il pane, nel Medioevo, non è un alimento così scontato come lo è per noi. Il pane bianco è consumato solo nelle città, più precisamente nei monasteri e nelle case signorili. In campagna il pane si produce con segale, miglio e panìco (simile al miglio); quest’ultimo viene preparato anche sotto forma di polenta (il mais non esiste ancora in Europa, in quanto è una pianta originaria del continente americano). In campagna si consumano comunemente zuppe d’orzo e di farro oltre che minestre d’avena. Questi, che oggi sono considerati cereali minori, cioè meno pregiati del frumento, in realtà non sono di qualità inferiore e non sono assolutamente sgradevoli sotto il profilo del gusto. È stata l’ideologia dominante che li ha svalutati per marcare le differenze sociali.

Secondo Bonvesin de la Riva, i contadini lombardi mangiano panìco, castagne e fagioli, non i fagioli originari dell’America, ma i fagioli cosiddetti “dall’occhio”, una varietà di origine mediterranea.

Esiste nel Medioevo una cucina locale? Sì, a livello contadino, perché a base di prodotti locali. No, se ci si sposta in città. Una delle caratteristiche della cucina medioevale è quella di non apprezzare le cucine locali, in quanto identificate con la cucina contadina e quindi povera. L’idea della cucina del territorio è un’idea molto recente. Nel Medioevo mangiare i prodotti del territorio è una cosa da “villani” cioè da contadini. Dunque la cucina “alta” è una cucina “internazionale”, un po’ come quella che noi oggi chiamiamo “fusion”.
Il più antico ricettario che ci è pervenuto risale al XIV secolo. Se si confrontano i libri di ricette di quel periodo, ci si rende conto che ricorrono invariabilmente gli stessi piatti e le stesse preparazioni, a dimostrazione del fatto che siamo di fronte a una cultura culinaria diffusa internazionalmente.
Come più sopra già affermato, la cucina medioevale sottolinea le differenze sociali.
Per il periodo considerato si deve dunque parlare di cucine cittadine e non regionali. La città assorbe, riassume ed esalta i valori culturali gastronomici del territorio. Ne è una prova il fatto che il prodotto rurale, ad esempio il formaggio prodotto nel contado di Parma, prende il nome dalla città che è dominante su quel territorio. In questo modo la città si rappresenta come il centro e il mercato del suo territorio.




I Monasteri



dolci nei monasteri

Ci sono parecchi motivi per cui oggi si può affermare che l’arte culinaria europea e la relativa educazione alla tavola, abbiano avuto origine tra le mura dei monasteri e delle abbazie medioevali. 
Queste furono le prime comunità ad occuparsi del senso e dello scopo dei cibi, svolgendo la doppia funzione di ospedale e di ricovero. 
La medicina era cosa del clero e gli “scriptoria” rappresentavano i baluardi della ricerca. Poveri, malati, principi, laici, ecclesiastici, commercianti e pellegrini, bussavano frequentemente alle porte dei monasteri in cerca di ospitalità e aiuto (le locande erano infatti rare). Indispensabile per conventi ed abbazie era avere dispense ben fornite, il cui approvvigionamento arrivava sia dalle proprietà terriere che dalle "decime" del contado. In queste piccole isole autonome si svilupparono quelle tecniche agricole, mediche e alimentari che diedero vita alle fondamenta delle cucine "locali". 
In che cosa consisteva l'alimentazione giornaliera di un monaco? Per esempio, la Regola di San Benedetto prevedeva un pasto al giorno e alla sera una leggera "collazione" (da Collazioni, la raccolta di testi letti durante questo pasto). In pratica però, già dal IX sec. le quantità di cibo consumate divennero notevolmente superiori per un'applicazione più elastica della Regola che precisava: "Noi rimettiamo al giudizio e al potere dell'abate di aggiungere qualche cosa se è il caso". Nei giorni di festa gli alimenti a disposizione del monaco aumentavano ancora: di un quarto i cibi, della metà le bevande, e anche se c'erano momenti di digiuno e giorni dediti al mangiar di magro, in alcuni monasteri il numero delle festività arrivava fino a 156, per onorare oltre alle 
classiche ricorrenze religiose anche i "patroni" locali. 
Ma all’interno delle comunità monastiche da chi erano ricoperti i vari ruoli? Dalla nobiltà provenivano abati e badesse, mentre la cura dei campi, delle cantine e delle stalle era affidata ai fraticelli e ai semplici laici. A cucinare pensavano quei monaci e quelle monache che sapevano rielaborare le indicazioni dietetiche rintracciate nei vecchi manoscritti. Nacquero così i primi appunti e le prime raccolte di ricette. I monasteri, per far fronte al loro impegno spirituale e di assistenza medica, svilupparono però, quasi automaticamente, una sorta di cucina salutare. Gli orti ricchi di spezie, erbe medicinali ed ortaggi, assieme ai vigneti, ed agli stagni, furono importanti fonti di risorse alimentari. Le conoscenze degli effetti salutari delle erbe, confluirono progressivamente nella cucina quotidiana, facendo diventare consuetudine il somministrare medicamenti con il cibo. Le pietanze, di solito insipide, dopo tali misture, acquistarono in sapore e fu proprio questo effetto secondario, molto apprezzato, che fece scoccare la scintilla creatrice dell’arte culinaria.




Alcune ricette fotografiche ancora oggi esistenti e reperibili anche in internet




Il Certosino, o Pan Speziale

Il Certosino, o Pan Speziale,  è il dolce tipico di Natale a Bologna, di sicura origine medioevale.

Pare che il nome curioso di questo dolce derivi dal dialetto bolognese pan spzièl, pane speciale (ed era davvero un pane speciale, da consumarsi durante le feste natalizie), ma anche dalle spezie di cui è ricca la ricetta. Successivamente furono i frati della Certosa, oggi cimitero di Bologna, a prepararlo e il nome del dolce divenne dunque Certosino, cioè quello della confraternita. 
Il Certosino fu conosciuto anche alla corte papale per opera dei frati di San Brunone, èinfatti documentato che dal 1740 e per molti anni, dal monastero bolognese, per Natale partiva alla volta di Roma un gigantesco Pane Certosino destinato a Prospero Lambertini, papa Benedetto XIV. 
Tradizionalmente, il Certosino viene preparato con ingredienti particolari e speziati come la cannella, semi di anice, chiodi di garofano, farina, zucchero, miele, burro, canditi, pinoli, mandorle, uvetta sultanina e cioccolato fondente.
Esso viene preparato in una teglia di forma rotonda circa un mese prima di Natale, in quanto necessita di un periodo di riposo e di stagionatura (in un luogo fresco ed asciutto, assolutamente non il frigorifero).

Nel giugno del 2003 la delegazione di Bologna dell' Accademia Italiana della Cucina ha depositato presso la Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Bologna la ricetta ufficiale del Certosino o Panspeziale. La ricetta è stata elaborata a seguito di ricerche storiografiche ed è protetta con il marchio di qualità STG (Specialità tradizionale Garantita).






PANFORTE e PANPEPATO

La ricetta di questo antico dolce speziato di forma rotonda è presente con diverse varianti in regioni come Toscana, Emilia Romagna, Umbria e Lazio. L'antenato del panpepato sarebbe il melatello, un semplice dolce a base di farina e di acqua melata, ossia acqua usata per risciacquare i recipienti che avevano contenuto miele. L'usanza di utilizzare questo liquido era già presente sulle tavole dei romani che l'usavano per dolcificare preparati fatti con latte, uova, frutta secca e vino.
Nel Medioevo i dolci melati si arricchirono delle spezie diventando un cardine della cucina dolce di corte. Fu Siena, grazie ai ricchi commerci, che fece di queste preparazioni un'eccellenza.
Si racconta che l'ispirazione venne presa da certi pani speziati a base di miele riportati dall'Oriente dal senese Niccolò de' Salimbeni nel XII secolo. I primi produttori furono i monasteri, a Siena lo facevano le suore di camaldolesi di Montecelso e i francescani della basilica dell'osservanza.
La ricetta originale prevedeva la farina, miele, frutta di stagione (fichi, arance, susine, mele, uva) e spezie. Cuocendo l'impasto si aveva l’accorgimento di lasciarlo un po’ umido, in modo che la frutta fermentasse, dando alla focaccia il caratteristico gusto acidulo: da qui il nome panforte.
Questo genere di dolce era già nel 1370 un prodotto senese da esportazione, consumato anche a Venezia durante le festività (Natale).
Con il trascorrere del tempo la ricetta si trasformò sostituendo la frutta bollita con frutta candita e secca, per ottenere un dolce di maggiore serbevolezza.
Oggi dovrebbero essere diciassette gli ingredienti che compongono il panforte, come dal 1675 diciassette sono le contrade del Palio.
Ecco nell’ordine: miele, zucchero, farina di grano, noci, nocciole, mandorle, popone candito, cedro candito, aranci canditi, scorza di limone candita, corteccia di cannella, coriandolo, pepe aromatico, pinoli, chiodi di garofano, acqua per impastare e fuoco per cuocere.
Il famoso “Panforte Margherita”, più delicato, fu inventato solo nel 1879 da Enrico Righi (allora proprietario del negozio Panforte Parenti), in occasione della visita a Siena della regina Margherita di Savoia.



pan pepato





La Cassata di Oplontis

In un affresco di un triclinio della Villa di Oplontis (Torre Annunziata) é raffigurato un dolce dalla incredibile somiglianza con una moderna cassata, il tradizionale dolce siciliano a base di ricotta e zucchero. Molti hanno cercato di indovinare quale fosse la ricetta di questo dolce romano, basandosi sugli ingredienti conosciuti all'epoca.

Ecco una ricetta che mi é sembrata la più appropriata .
 
Ingredienti: 
E preparazione

Tagliare a dadini della frutta secca composta da albicocche (150 gr), prugne (150 gr), uva sultanina (100 gr), datteri (a piacere) e mettere da parte alcuni frutti interi per la decorazione. Far cuocere in poco miele 100 gr di noci spellate e dei pinoli fino ad ottenere una miscela caramellata consistente. Lasciar raffreddare. Passare 1 kg e mezzo di ricotta vaccina al setaccio lasciandone 100 gr per la decorazione. Mettete la ricotta di pecora in un recipiente e con una frusta rendetela il più cremosa possibile, quindi aggiungete pian piano il miele ed incorporatelo alla ricotta. Sminuzzate i frutti secchi e canditi in piccoli pezzi ed aggiungeteli al composto di ricotta e miele. Predisponete lo stampo rotondo foderandolo con la sfoglia rossa preparata in precedenza impastando il rosso d’uovo alla farina di mandorla e aggiungendo il rosso dei lamponi. Versate il composto all’interno dello stampo rendendolo uniforme, aggiungete al centro con i frutti indicati per il decoro. Mettete in frigorifero a zero gradi per circa 2 ore.
(Ristorante Il Principe, Pompei)
Naturalmente, non sapremo mai che sapore avesse veramente questo dolce, ammesso che sia veramente esistito e non sia, forse, una raffigurazione immaginaria.






I Canditi





Sono il risultato dell’operazione di canditura della frutta, consistente nella sua prolungata e ripetuta immersione in una soluzione di zucchero resa via via sempre più satura con il riscaldamento. Nella lingua italiana il termine “candito” potrebbe evocare il “candore” dello zucchero raffinato, ma in passato la denominazione oscillava tra “candito” e “condito”, e questa variante aveva anch’essa un’evidente giustificazione semantica. In ogni caso l’origine della parola sembra derivi da “qandi”, termine arabo che indica il succo di canna da zucchero concentrato. Infatti anche il procedimento della canditura, come accadde per altre tecniche dolciarie, si ricollega alla diffusione dello zucchero nel bacino del Mediterraneo ad opera degli Arabi. 
In passato si candivano vari fiori e frutti, ma soprattutto gli agrumi.




fiori canditi

Fin dal Medioevo è testimoniato, anche il termine confitare (dal latino “conficere” = confezionare, preparare) che si riferiva non solo alla frutta candita, ma anche ai semi di anice o di finocchio imprigionati in una copertura di zucchero, piccole delizie sempre presenti nei servizi di apertura o chiusura dei banchetti. 
La tecnica della canditura conferisce al prodotto un alto grado di conservabilità, facendolo utilizzare frequentemente nella preparazione e guarnizione di molti dolci. ( da Taccuinistorici.it)

I canditi di fiori rimasero in largo uso fino a tutto il 1800. Quelli di frutta, come meloni, agrumi, albicocche, pesche, sono in uso ancora oggi nelle zone del Mar Mediterraneo. Trovano un posto fondamentale in dolci come la cassata siciliana, il panforte di Siena o il panettone I canditi di semi quali noci e mandorle erano diffusissimi in dolci come e ilnucato, croccante di noci.

Queste preparazioni hanno sfidato i secoli e sono diffusissime ancora oggi nelle forme più varie: confetti di mandorle, croccante di noci, nocciole, sesamo, torroni e praline. In particolare la mandorla occupa un posto di assoluto rilievo nella pasticceria medioevale con il marzapane, che veniva preparato in dolcetti di varie fogge quali bocconotti,morselletti, calicioni. La pasta di mandorla veniva modellata in forme varie, come oggi è ancora usanza nel periodo pasquale dove si modella l'agnellino. Tuttavia nei secoli passati le forme potevano essere monumentali e rappresentare persino edifici, come il castello del signore che ospitava il banchetto. Le mandorle entrano in numerosissime paste, talvolta giunte sino a noi. Tra queste i mostaccioli, ovali o a forma di dito con miele e mandorle.





Dolcetti antichissimi
I Mostaccioli





mostaccioli

I mostaccioli sono dolcetti di origini antichissima, conosciuti in varie regioni italiane..
La parola “mostaccioli” è molto antica e potrebbe derivare dal greco "mustacea" (è infatti il nome con il quale Teocrito li ricorda nei suoi Idilli), oppure derivare dal latino “mustaceum”, che indica una focaccia dolce tra i cui ingredienti figurava il mosto d’uva cotto su foglie di lauro.
Non meraviglia la straordinaria diffusione dei mostacciuoli su tutto il territorio nazionale: essi ci riportano direttamente alle origini della nostra storia. Per tradizione, il mostacciuolo era offerto ai convitati al momento della partenza, un ultimo segno di attenzione all'ospite che si congedava. 
La prima descrizione dei "mustacei" ce la dà Catone nel "De Agricoltura", col suo stile asciutto ed essenziale: "intridi un moggio di farina con il mosto, aggiungici anice, cumino, due libbre di grasso, una libbra di cacio e della corteccia di alloro, quando avrai impastato e dato la giusta forma, cuoci sopra foglie di lauro." 
Li citano pure Giovenale e Cicerone, che addirittura li usa nel famoso detto: “laureolam in mustaceo quaerere” ossia “ottenere la gloria a buon mercato”.
Una torta nuziale dell'antichità era detta "mustaceus" e veniva preparata con farina, mosto e abbondante aggiunta di cannella.
Nel corso dei secoli la preparazione di questi dolcetti si è arricchita di numerosi ingredienti, sempre variati e parecchi trattati ne danno descrizioni così complicate da farci rimpiangere la semplicità della ricetta romana. 
Il Corrado (XVIII sec.), ne indica tre diverse preparazioni, i ricettari ottocenteschi ne offrono numerose versioni. 
Oggi, praticamente quasi ogni regione italiana ha elaborato una propria ricetta di mostacciuoli, quelli più vicini alla tradizione antica sono, probabilmente, gli abruzzesi, a base di farina, miele e mosto ben cotto; i pugliesi, che però utilizzano il cotto di fichi al posto del mosto ed i ben noti "mustazzola" di Ragusa (Sicilia), preparati all'antica, con farina, vin cotto e poi irrorati di miele fuso e mandorle tritate. I mostaccioli napoletani, semplici o ricoperti di cioccolato, sono famosissimi e si mangiano tradizionalmente per le feste di Natale e per festeggiare l'anno nuovo, anche se oggi si trovano in pasticceria durante tutto l'anno.
Una parola a parte meritano i pittoreschi mostaccioli calabresi. In origine erano utilizzati come ex-voto, per grazia ricevuta, ed erano forgiati in diverse forme: parti anatomiche del corpo umano, fiori e simboli religiosi; in seguito venduti sulle bancarelle delle feste patronali, potevano avere forme anche di pesci, sirene, galli, tori, cavalli, esse barocche, palme ed elefanti.
I mostaccioli a forma di cuore, decorati con strisce di stagnola rossa, simboleggia l'amore e si regalavano durante i fidanzamenti.






     

La Rocciata umbra




La Rocciata ha origini molto antiche, probabilmente risalente ai primi insediamenti umbri, infatti nelle "tavole eugubine" si parla di un alimento con tutta probabilità simile alla rocciata ed usato nei riti sacri: il "tensendo", dolce proprio del dio Hondo Cerfio, antica divinità umbra.
Alcuni sostengono addirittura che, per la somiglinza della Rocciata con lo strudel, potrebbero esserci dei legami con i Longobardi, che in territorio umbro, nell'alto medioevo, avevano un loro Stato. Infatti, il dolce è formato da una sottile sfoglia di pasta in cui viene avvolto un ripieno costituito da: noci tritate, pinoli, uvetta sultanina, zucchero, mele e olio d’oliva al quale, come variante, è possibile aggiungere anche il cacao.
La rocciata si prepara durante le festività invernali, soprattutto durante il Natale e le feste dei Morti e dei Santi.
Come qualsiasi dolce tipico, ogni famiglia ha la sua ricetta e gli ingredienti possono variare.

Ecco i principali:


250 gr di farina
50 gr di zucchero
1 pizzico di sale
1/2 bicchiere d’olio
1/2 kg di mele tagliate a fettine
100 gr di uva sultanina
50 gr di pinoli
alcuni gherigli di noce spezzettati.




 Pan di Spagna








A dispetto del suo nome questo dolce è italiano: inizialmente il pan di Spagna si chiamava Pâte Génoise, ovvero pasta genovese e per quanto riguarda le origini del pan di Spagna, si fanno risalire alla metà del 1700 quando il cuoco genovese Giobatta Cabona fu inviato a Madrid al seguito del marchese ed ambasciatore Domenico Pallavicino. In occasione di un importante banchetto Giobatta, che era già famoso all'epoca come cuoco, presentò la sua ultima invenzione: una torta di incredibile leggerezza che prese il nome di Pan di Spagna per onorare la corte spagnola. Questo impasto si preparava a caldo, ovvero tutti gli ingredienti venivano aggiunti in una terrina che poggiava su una pentola con dell'acqua che bolliva. Col tempo dalla ricetta originale derivò una soluzione più semplice e questo metodo venne abbandonato : la Pâte Génoise divenne il moderno pan di Spagna.

L'impasto del pan di Spagna, oggi, viene preparato a freddo mischiando in una terrina poca farina o fecola di patate, zucchero, tuorli e bianchi d'uovo montati a neve fermissima. Ottimi gli aromi: sia la scorza di limone che la vaniglia stanno benissimo in questo dolce. 
Il dolce risulta morbido e spumoso grazie alla massiccia presenza di uova: la ricetta tradizionale, infatti, non prevede l'uso di lievito.La consistenza soffice viene data a questo dolce da un semplice accorgimento: per fare un buon pan di Spagna sarà fondamentale montare bene le uova e lavorarle a lungo con lo zucchero , infatti è proprio l'aria, incorporata dalla lavorazione, a dare questa sofficità. L'impasto deve essere uniforme e ben areato. La cottura lo rigonfia ulteriormente: aria e acqua si trasformano in vapore e cercano di uscire, espandendo le bollicine legate dalla farina e fissate dalla cottura.









BEVANDA SUGGERITA A FINE PASTO





IPPOCRASSO.

Vi sono moltissime varianti di questa bevanda utilizzata come digestivo, ma anche per mimetizzare con aromi il vino a volte non troppo buono.

Dopo attente ricerche e verifiche sul campo, presentiamo una delle ricette che ha riscosso maggiore successo.

INGREDIENTI

g 8 di cannella
g8 di zenzero
g8  di galanga
g 750 di miele millefiori per ogni litro di vino.

PREPARAZIONE

In genere, per essere conviviale, abbiamo l'abitudine di prepararne 5l

Prendiamo un recipiente anche in acciaio e versiamo il vino.
Aggiungiamo le spezie, mescoliamo accuratamente, copriamo il contenitore con un panno e lasciamo riposare tutta la notte.
Al mattino ,con l'aiuto di un colino e di un filtro fine in garza, coliamo, filtriamo e imbottigliamo il tutto.
Dobbiamo porre molta attenzione affinchè i fondi delle spezie non vengano mescolate. Fate questa operazione con l'aiuto di un mestolo e senza toccare il fondo.
Servire fresco.








 
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