inchiostro-doratura-pigmenti - ASDPS ARMIS ET LEO

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scriptorium



Materiali e Tecniche della produzione dei Manoscritti 
l' Inchiostro

Le penne d’oca funzionavano come penne ad immersione nel senso che un copista non poteva lavorare senza avere accanto un recipiente pieno di inchiostro, il calamaio, ed, infatti, molte rappresentazioni di S. Giovanni sull’isola di Patmos includono la figura di un diavolo dispettoso che da dietro un cespuglio con un gancio tenta di far sparire il calamaio del Santo.



Un copista non può scrivere senza inchiostro.
Le miniature concernenti S. Giovanni che mette per scritto il Libro della Rivelazione, infatti, non di rado illustrano la leggenda del tentativo fatto dal Diavolo di sottratte all’Evangelista le sue penne ed il calamaio portatile così da impedirgli di terminare la stesura dell’ultimo libro della Bibbia. Rouen, Libro delle ore. 1480 circa.


Questa è una scena all’aria aperta ed il calamaio è portatile, probabilmente con una chiusura a vite ed è attaccato con una corda ad un astuccio oblungo per penne. Negli scrittoi invece l’inchiostro era contenuto in corni e, qualche volta gli scrivani sono ritratti mentre tengono fra le mani tali contenitori ma più spesso entrambe le mani erano occupate a lavorare con penna e coltelli. Gli Evangelisti dipinti nei Vangeli di epoca Carolingia mostrano che essi tenevano l’inchiostro su un supporto separato, una sorta di porta lampada, accanto al tavolo di lavoro (una buona precauzione pensando quanto sia facile rovesciare un calamaio). Le raffigurazioni basso medievali presentano i corni contenenti l’inchiostro generalmente inseriti in cerchi di metallo a loro volta attaccati al margine destro del tavolo di lavoro e ve ne potevano essere da due a tre. Vi sono esempi in cui i corni con l’inchiostro sono inseriti in una serie di buchi verticali sulla superficie del tavolo e loro punte escono fuori dal fondo dello stesso tavolo.
 Abbiamo numerose ricette medievali per la fabbricazione dell’inchiostro. Vi erano due tipi d'inchiostro completamente differenti. Il primo è una mistura di nerofumo e gomma, a base quindi di carbone.

 Il secondo è a base di noce di galla e di metallo, di solito una soluzione di acido tannico e solfato di ferro; anche questo richiede l’addizione di gomma come additivo per la consistenza più che per renderlo maggiormente adesivo. Il colore nero è il risultato di una reazione chimica. Entrambi i tipi di inchiostro erano in uso durante il medioevo. L’inchiostro di nerofumo era adoperato nell’antichità e nel mondo orientale e viene descritto in tutte le ricette medievali fino al XII secolo. Anche l’inchiostro a base di noce di galla e metallo era in uso almeno dal III secolo ma non vi sono descrizioni della sua preparazione fino al primo XII secolo con Teofilo. Da questo momento le ricette artigianali descrivono tali inchiostri e, probabilmente, tutti i manoscritti tardo medievali sono scritti con questo stesso tipo di inchiostro. 
La ricetta è interessante ed è sorprendente apprendere che il principale ingrediente è la galla di quercia, una curiosa formazione tumorale rotonda, della misura di una piccola biglia, che cresce sulle foglie e sui rametti della quercia. Si forma quando all’interno del germoglio quercia una vespa depone le sue uova ed una sfera soffice e di colore verde pallido che si forma intorno alle larve.




Galle sul ramo di una quercia.
Il piccolo buco presente su ognuna di esse mostra il luogo dal quale la vespa è fuoriuscita dopo aver deposto le uova.

È possibile trovare le noci di galla sugli alberi di quercia, anche ai giorni nostri, benché le migliori erano ritenute quelle importate da Aleppo nel levante. Se raccolte troppo giovani le noci di galla si raggrinziscono come frutta matura ma quando la larva all’interno si sviluppa completamente in insetto che lascia il suo bozzolo vegetale attraverso un foro la noce che resta è ricca di acido tannico e gallico. Queste vengono frantumate e lasciate in infusione con acqua piovana sotto il sole o vicino al fuoco. Alle volte vino bianco o aceto potevano essere utilizzati al posto dell’acqua piovana. Dunque, questo è il primo ingrediente di questo tipo di inchiostro. Il secondo è solfato di ferro noto anche come copparosa verde, vitriolo verde o salmortis. Questo componente poteva essere prodotto artificialmente o trovato naturalmente come risultato dell’evaporazione dell’acqua nei terreni ferrosi. La copparosa verde, a partire dal tardo XVI secolo, veniva prodotta versando acido solforico su vecchi chiodi, filtrando il liquido così ottenuto e mischiandolo con l’alcol (ciò potrebbe spiegare l’acidità degli inchiostri post-medievali).

La copperosa verde viene poi addizionata alla pozione a base di noce di galla e rimescolato con un bastone di fico. La soluzione così ottenuta passa da un marrone pallido al nero.
A questo punto, viene aggiunta della gomma arabica non tanto per aumentarne le capacità adesive ma per incrementarne la densità. Le penne d’oca necessitano di un inchiostro viscoso mentre le penne stilografiche no. La gomma arabica è la resina dell’acacia che viene seccata, importata in Europa dall’Asia minore. L’inchiostro a base di noce di galla si scurisce ancor più quando esposto all’aria sulle pagine dei manoscritti. Viene ben assorbito dalla pergamena al contrario di quello a base di nerofumo può essere rimosso con una certa facilità; l’inchiostro a base di noce di galla è anche maggiormente lucido e splendente dell’altro che risulta più nero e granuloso.
Le raffigurazioni medievali spesso mostrano due corni contenenti inchiostro sulla destra del tavolo. Il secondo contenitore era probabilmente per l’inchiostro rosso. Quest’ultimo era molto usato nei manoscritti medievali per titoli, sotto titoli e rubriche (da qui la parola stessa) nei manoscritti liturgici, e per i giorni marcati con lettere rosse nei Calendari. Le correzioni del testo erano alle volte effettuate in rosso, per sottolineare l’attenzione con la quale il testo era stato rivisto. Inchiostri blu e verdi esistevano ma erano assai rari; il rosso era, dunque, il secondo colore. L’uso del colore rosso risale per lo meno al V secolo e fiorì fino al XV secolo. Deve essere stata la diffusione della stampa, per la quale era assai difficile produrre testi a colori, ad intaccare la convinzione medievale che i libri dovevano essere esclusivamente in rosso e nero. I libri a stampa erano solo in nero ed apparivano più monotoni. Il vermiglio si otteneva con solfati di mercurio che viene trasformato in inchiostro rosso mediante frantumazione e mescola con chiara d’uovo e gomma arabica. L’inchiostro rosso si può ottenere anche dalla scorza del brasile o verzino infusa in aceto e mischiata con gomma arabica. Occorre spiegare che questo tipo di vegetale non è originario del sud America ma, al contrario, data l’abbondanza di tale albero noto ai fabbricanti di inchiostro in queste regioni fu esso stesso a donare il nome all’area geografica.




Jean Miélot (+ 1472), canonico della città di Lille e segretario di due duchi di Borgogna, notevole traduttore e copista,
viene presentato in questa miniatura come il copista-studioso ideale nel suo studio colmo di manoscritti e strumenti di lavoro.

L’originale e la copia erano posti sul tavolo inclinato l’uno accanto all’altro. Nelle miniature si vede che i manoscritti erano tenuti aperti grazie a dei pesi appesi ad ogni margine con una corda che aveva un capo ciondolante sul retro del tavolo e l’altro sulla sommità della pagina. Un manoscritto di pergamena tendeva a chiudersi se non viene mantenuto aperto. Alcune volte i pesi sono rappresentati come all’incirca triangolari con sommità rotonde e parti inferiori estremamente allungate. Nel momento in cui lo scrivano si accingeva a copiare il testo, risultava per lui semplice spingere il peso in basso sulla pagina così che la parte inferiore, estremamente allungata, avrebbe segnato esattamente il suo posto sull’originale. I copisti sedevano su sedie molto alte (giudicando dal materiale iconografico) di fronte ad un tavolo inclinato.

Alcune illustrazioni medievali presentano la superficie del tavolo come attaccata alla sedia, apparentemente attraverso cardini, in modo da permettere al copista di sedersi per poi rimettersi in posizione, come negli odierni seggiolini per bambini. Stando alle rappresentazioni, tuttavia, appare difficile immaginare come il copista potesse riuscire a muoversi nella sedia anche se munita di cardini. L’inclinazione era assai ripida. Le penne d’oca sono maggiormente funzionali quando si adoperino con un’inclinazione ad angolo retto rispetto alla superficie dello scritto e ciò e più semplice da ottenere su di un piano inclinato. Per uno moderno scrivano, inoltre non pratico, rimarrebbe difficile scrivere con un’inclinazione così ripida a causa del modo in cui la penna viene oggi tenuta che necessita il riposo della parte finale della mano e delle dita sulla superficie della pagina. Ma una penna mantenuta nel modo descritto precedentemente richiede scarsamente che la mano tocchi la superficie del foglio ed il movimento è legato al braccio più che alla mano. Per questo motivo la flessibilità consentita dall’inclinazione del tavolo era ideale. Dal momento che l’inchiostro impiega qualche momento per asciugarsi si può notare come nella pagina dei manoscritti medievali la concentrazione dello stesso inchiostro risulta maggiore nella parte inferiore delle lettere dal momento che si è seccato assecondando l’inclinazione del tavolo. Inoltre, nel momento di cominciare la copiatura, al copista veniva raccomandato dai precetti dell’arte di passare un’ultima volta la pergamena con pomice e gesso per ammorbidirla.
 
Ciò rimuoveva ogni grasso che poteva essersi accumulato nel maneggiare e ripiegare i fogli di pergamena e per ridurre il rischio che l’inchiostro sbavasse.
Nel momento della scrittura vera e propria lo scrivano teneva in mano un coltello. Azione universale ed importante nel medioevo. Lo scrivere, come il mangiare, era un gesto che prevedeva l’uso di entrambe le mani. Ciò significa che egli non si ritrovava una mano libera per poter seguire io testo dell’originale. Il coltello, usato per appuntire la penna e per cancellare gli errori (velocemente prima che l’inchiostro venga assorbito), assolveva anche la funzione di stendere la pagina di pergamena, sempre troppo rugosa, e per scorrere lungo le linee man mano che il copista scriveva ogni parola.
Riordinare una pagina con l’aiuto delle dita, infatti, può essere fonte di unto e scomodo allo stesso tempo mentre il coltello permette maggior controllo e precisione.

la Doratura

Diversi sono i metodi utilizzabili per applicare l’oro alle pagine di un manoscritto e, alcune volte, queste diverse tecniche venivano usate nella realizzazione di una singola miniatura per ottenere effetti differenti. In sintesi, vi sono tre metodi basilari appropriati alla doratura dei libri. Due di questi usano fogli di oro mentre l’altro utilizza polvere d’oro. Nel primo caso, un disegno viene schizzato su una superficie coperta con un tipo di colla umida e, poi, il foglio di oro viene posizionato su di esso ed infine lucidato quando è secco. Questa tecnica era usata in particolare nei primi manoscritti e con la stessa è possibile ottenere un efficace effetto luminoso come quello tipico dei primi pannelli dipinti. Nel secondo caso, viene precedentemente preparato un fondo di intonaco in modo da ottenere un risultato tridimensionale. Quando l’applicazione e la lucidatura dell’oro sono stati completati, la miniatura appare molto spessa e la sua superficie cesellata assorbe luce da più angoli. Tale tecnica è certamente la più magnifica fra le diverse metodologie della miniatura medievale e sarà descritta nei minimi dettagli più avanti. Il terzo metodo consiste nell’applicare dell’inchiostro dorato, ottenuto mescolando polvere d’oro con gomma arabica (comunemente preparato e contenuto all’interno di una conchiglia di cozza o ostrica, da cui il nome in inglese di “Shell gold”) con la penna o il pennello. Lo stesso era detto anche patina d’oro o oro liquido. Al contrario dei fogli d’oro veniva aggiunto dopo i colori. Fu particolarmente in voga dopo la seconda metà del XV secolo e può in qualche modo assomigliare alla “glassa dorata” stampata su certe odierne carte natalizie. È abbastanza curioso che tale metodo sia stato tanto comune in quanto il suo effetto può facilmente divenire barocco ed eccessivo e, inoltre, doveva essere assai più caro poiché tritare dell’oro per ottenerne polvere necessita di una maggiore quantità di materiale rispetto alla semplice applicazione di una foglia d’oro; chi ha tentato di contornare i colori con l’inchiostro dorato ha sottolineato quanto sia lungo e complicato tale metodo.
Anche la foglia d’oro non è di semplice applicazione. Una delle proprietà specifiche dell’oro è che questo può essere martellato e ridotto sempre più fino senza che esso si sbricioli. Una foglia d’oro è infinitamente più fina del più fino dei fogli di carta. È virtualmente senza peso e spessore. Se lasciata cadere non sembra fluttuare verso il basso. Se deposta su una superficie può incresparsi o piegarsi ma può essere steso facilmente con un fiato, divenendo piano come un lenzuolo stirato. Fino al 1200 era comparativamente poco usato eccetto che per lavori particolarmente ricchi e di lusso.
Tale metodo è abbastanza economico anche attualmente. Cennino Cennini, gioielliere e teorico dell’arte italiano del XIV secolo, diceva che quando si acquista dell’oro in fogli occorre essere sicuri che il venditore sia bravo a battere l’oro, controllare l’oro stesso e vedere se la sua superficie è opaca ed increspata, come la pergamena di capra, per poterlo valutare un buon affare. Entrambi, Cennini e il Modello di Gottinga, libro 5, descrivono ampiamente il modo di fabbricare l’intonaco per preparare la base della miniatura. “Inizia con il gesso di Parigi, e mischialo con un poco di polvere di piombo bianco (meno di un terzo della quantità del gesso, secondo Cennini). La sostanza così ottenuta è molto bianca e friabile.” Il manoscritto di Gottinga riprende la medesima ricetta: “poi si vada a prendere dallo speziale del bolo armeno e lo si mescoli con il gesso fino a che questo stesso no assuma un colore rosso carne.” Il bolo armeno, così chiamata anche se certamente proveniva anche da molte altre zone più vicine dell’Armenia, è un’argilla grassa che non ha altre funzioni in questo processo se non quella di fornire il colore. Al momento di applicare l’intonaco su di una pagina bianca, infatti, l’uso di una sostanza colorante rende questo composto maggiormente visibile; e, inoltre, se parte della doratura dovesse perdersi è sempre maglio vedere la di sotto una tonalità rosa/marrone che un bianco sfavillante.
 È interessante verificare se ilo bolo armeno sia stato più o meno usato nella miniatura di un manoscritto. Di solito, specialmente nei manoscritti di valore, è possibile riconoscere se tale sostanza è presente al di sotto della doratura Tale fondotinta in Italia era rosa, in Germania e nelle Fiandre era marrone, A Parigi non veniva generalmente utilizzato. Questa deve essere considerata una di quelle curiose differenze che qualora venissero documentate e studiate sistematicamente potrebbero un giorno aiutare a riconoscere il luogo di produzione di un manoscritto a almeno la zona di provenienza del miniaturista. Tuttavia, per tornare alla ricetta, ora abbiamo una sostanza a base di gesso e piombo, più o meno colorata che sia. Ora occorre aggiungere dello zucchero. Questo o il miele agivano come sgrassanti, ovvero eliminavano l’umidità ed è importante che il preparato resti umido il più a lungo possibile. La sostanza poteva essere seccata in piccole palline rosa ed essere conservata in questa forma. Ogni qualvolta fosse stata necessaria, poi, si poteva prendere una di queste palline e frantumarla mischiandola con dell’acqua pulita e chiara d’uovo, su una superficie piana, probabilmente di pietra, fino a che non diventasse fluida e senza bolle. L’albume si otteneva raccogliendo il liquido appiccicoso che si forma sul fondo di una recipiente in cui vengono sbattute le chiara d’uovo, specialmente se si aggiunge una tazza di acqua fredda.
Questo è l’intonaco, una mistura che necessita di essere girata spesso, pronta per l’uso. Veniva applicata con una penna d’oca e non con un pennello. La velocità è importante in quanto occorre passarla con tocco lieve per non danneggiare la pergamena con la punta. Il liquido viene immesso nel centro della parte da dorare e velocemente ed attentamente sparsa negli angoli e in tutte le parti della pagina del manoscritto evidenziate dai contorni del bozzetto, intorno ai margini delle iniziali, sulle foglie di edera, delle aureole, punteggiato sulla quadrettatura degli sfondi e così via. Presumibilmente il miniaturista medievale, diversamente dal copista, lavorava su un tavolo piatto piuttosto che su ripiano inclinato dal momento che l’intonaco viene ammonticchiato e tenuto insieme dalla tensione della superficie e, in caso contrario, ovvero su un piano inclinato tenderebbe a scivolare verso il basso. Un tempo umido e la rugiada della mattina sono ritenute essere eventi favorevoli all’applicazione della doratura. Un leggerissimo pezzo di foglio dorato viene preso per mezzo di un finissimo pennelletto, detto punta da doratura, e lasciato cadere sul morbido cuscino per la doratura dove può essere appiattito con un semplice soffio e tagliato con un coltello acuminato nella forma di strisciette o in altre semplici forme prima di essere ripreso col pennelletto. Respirando pesantemente sulla pagina de manoscritto, il miniaturista mantiene un giusto tasso di umidità permettendo all’intonaco di mantenersi appiccicoso; così il foglio d’oro può venire posizionato in modo da sovrapporsi ai margini della forma di intonaco. Come si avvicina alla pagina il foglio d’oro sembra saltare per suo conto nella giusta posizione. Viene poi coperto immediatamente con un pezzo di seta e pressato con forza col pollice.



In questa miniatura incompleta venne eseguita la doratura ma la colorazione non fu mai completata.
La scena illustra la persecuzione dell’Anticristo. Apocalisse di Abingdon, Inghilterra circa 1270-75.

Alcuni artigiani contemporanei asseriscono, sulla base della loro esperienza di bottega, che molte delle decorazioni dei manoscritti medievali furono effettuate utilizzando una pennapiuttosto che un pennello. Ciò sembra plausibile soprattutto per le iniziali decorate la parte interna delle quali era monocromatica senza alcun innalzamento. Qualora la tinta sbiadisca diviene possibile riconoscere i tratti della penna. Le istruzioni di Gottinga suggeriscono la possibile utilizzazione di entrambi i metodi: “dovrai mettere tutti i colori, ombreggiare e schiarire, con un pennello tranne che negli sfondi quadrettai per i quali andrà usata la penna e solo per schiarirli si adopererà un pennello, altrimenti, tutte le decorazioni floreali, grandi o piccole che siano, devono essere fatte a pennello.” Vi sono istruzioni del XVI secolo su come fabbricare un pennello per le miniature. Secondo tale fonte occorre usare i peli della coda di scoiattolo o ermellino arrotolati insieme mediante della carta ed inseriti nella parte finale del fusto di una piuma. Quindi potrebbe anche essere che le immagini di miniaturisti che sembrano avere in mano una penna d’oca in realtà stiano tenendo uno di questi pennelli. 



 i Pigmenti

La varietà di colori a disposizione del decoratore di manoscritti medievali era sorprendentemente vasta. Il rosso, ad esempio, poteva essere a base di cinabro, solfato d mercurio, estratto fin dall’Antichità in Spagna e sul Monte Amiata, presso Siena, ed in altri posti. Il vermiglio è simile nella composizione chimica ed era prodotto attraverso il riscaldamento di mercurio misto a zolfo e poi raccogliendo e tritando gli accumuli creatisi con il vapore durante la fase di riscaldamento. Essendo una mistura assai velenosa il vecchio trucco di bottega di leccare la punta del pennello per renderla pronta all’uso era un rischio calcolato. In alternativa il rosso poteva essere fatto grazie ad estratti vegetali come il brasile o verzino. Tale pianta è già stata menzionata a proposito della produzione di inchiostri rossi. Il rosso rubino, ottenuto dalla pianta della robbia (rubia tinctorum) che cresce in Italia.


C per colore di giacomo de Palmer XII secolo


Un rosso romanticamente chiamato sangue di drago viene descritto dalle enciclopedie medievali come il risultato del mescolarsi del sangue di un drago e quello di un elefante che si sono uccisi in battaglia. I botanici asseriscono che si tratta del prodotto della corteccia delPterocarpus draco. Il blu, dopo il rosso, è il secondo colore più comune nei manoscritti medioevali. Probabilmente la fonte maggior colorante era l’azzurrite, una roccia blu ricca di rame che si trova in numerose località europee. Un altro tipo dello stesso colore, anche se maggiormente tendente al violetto, era ottenuto dai semi di un girasole, ora dettoCrozophora. Ma il blu di maggio pregio era quello ultramarino, prodotto dal lapis lazuli, roccia tipica solamente dell’Afganistan.

Il percorso di questa pietra per raggiungere l’Europa resta difficilmente immaginabile, dal momento che essa era reperibile molto prima di Marco Polo; doveva passare da carovana a carovana, trasportato prima in borse su cammelli, poi su carri ed infine su barche, e così via prima di poter giungere nelle rivendite nordeuropee dove era venduto a carissimo prezzo. Il lapis lazuli del salterio di Winchester, del XII secolo, infatti, venne raschiato in modo da poter essere ri-usato. L’inventario del Duca di Berry, effettuato nel 1401-3, include fra i suoi tesori di incommensurabile valore due coppe preziose contenenti blu ultramarino. Vi erano, inoltre, altri pigmenti quali il verde ottenuto dalla malachite o dal verderame, il giallo da pietre vulcaniche o dallo zafferano, il bianco dal piombo. Numerose erano anche le differenti tecniche utilizzate per fabbricare la tinta dai pigmenti. I diluenti si facevano a base di vescica natatoria di storione o di grasso animale prodotto attraverso l’ebollizione di pezzi di pelle. Macinare e mescolare, trovando la giusta gradazione, i colori era no prerequisiti essenziali nella fattura delle decorazioni dei manoscritti miniati.



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