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crociate moderne

il cavaliere

CROCIATE MODERNE

ALLA CONQUISTA DELL'AMERICA: PERCHE' SPAGNA E PORTOGALLO?



conquistadores


I presupposti economici

Il colonialismo moderno nasce nell'Europa occidentale dei secoli XV e XVI, allorché già erano in atto i meccanismi economico-sociali di disgregazione del feudalesimo e di formazione dei rapporti di produzione capitalistici, basati prevalentemente sulla manifattura. In questo periodo, la metallurgia e l'industria mineraria, tessile, manifatturiera (ad es. orologi, vetri, specchi, armi da fuoco, oggetti di lavoro precisi, ecc.) avevano raggiunto un'indipendenza quasi totale dall'agricoltura, realizzando profitti notevolmente superiori. Anche nelle campagne era aumentata quella parte della produzione agricola e dell'allevamento del bestiame destinata non al consumo dei contadini e dei feudatari, ma al mercato e allo scambio con prodotti dell'industria. La piccola produzione artigianale destinata al mercato locale, l'economia agricola finalizzata all'autoconsumo, le rendite parassitarie dei grandi latifondisti - tutto ciò stava per essere superato da una forma sociale più redditizia: quella capitalistica, sia essa nella forma commerciale e usuraia del mercante, che nella forma imprenditoriale vera e propria.
L'allargarsi del mercato e della divisione sociale del lavoro stavano eliminando i rapporti personali tra produttore e consumatore, stavano trasformando i prodotti in merci, il valore d'uso in valore di scambio... I mercanti, in particolare, diventavano l'anello indispensabile che univa, su vasti mercati, le singole, grosse, aziende con i consumatori. I produttori diretti, artigiani e contadini, rovinati dalla concorrenza dei prodotti dell'industria manifatturiera, o intenzionati a emanciparsi dalla servitù della gleba o dalle costrizioni corporative, si trasformano in operai salariati: i più capaci o i più fortunati tentano la strada dell'imprenditoria privata a scopo di lucro.



Marco Polo

Uno dei modi ritenuti più facili per arricchirsi era il commercio con l'Asia, la cui importanza era notevolmente cresciuta dopo le crociate. Genova e ancor più Venezia distribuivano a tutta Europa gli oggetti di lusso orientali più richiesti: le spezie (pepe, chiodo di garofano, cannella, zenzero, noce moscata...), l'oro e le pietre preziose. India, Cina e Giappone erano considerati Paesi ricchissimi già dai tempi di Marco Polo. Tuttavia, tre problemi avevano messo in crisi questi commerci: a) il mondo musulmano monopolizzava tutti i commerci con l'Oriente e l'Estremo Oriente, per cui l'Europa non poteva avere legami diretti con queste aree geografiche (la via commerciale che passava attraverso il Mar Rosso era monopolio dei sultani egiziani, che a partire dal XV sec. cominciarono a imporre dazi doganali estremamente alti su tutte le merci); b) il crollo della potenza mongola, ad opera di quella ottomana, ebbe come risultato la fine del commercio carovaniero dell'Europa con la Cina e l'India attraverso l'Asia centrale e la Mongolia (l'ottomano era un regime dispotico di tipo feudale-militare); c) la caduta di Costantinopoli nel 1453 e le conquiste turche nell'Asia minore e nella penisola balcanica avevano chiuso quasi completamente la via commerciale verso l'Oriente attraverso la stessa Asia minore e la Siria.
Prima della "scoperta" dell'America, i commerci più proficui, ma del tutto insufficienti, dei Paesi europei con l'Oriente e l'Africa erano diventati quelli con Egitto, Marocco, Algeria e Tunisia. Solo questi Paesi potevano avere collegamenti diretti coi Paesi sub-sahariani (Sudan, Guinea, ecc.), per ottenere oro, avorio, schiavi e prodotti esotici. L'esigenza degli europei, quindi, era di cercare nuove vie marittime verso l'Africa, l'India e l'Asia orientale. Le classi socialmente più elevate: nobili e monarchi, borghesi e alto clero, che conducevano una vita molto dispendiosa o che miravano ad accumulare capitali per investirli in attività finanziarie o produttive, o che necessitavano di finanziamenti per gli apparati burocratici, amministrativi e militari degli emergenti Stati assoluti e nazionali, ritenevano che il modo migliore per soddisfare le loro esigenze fosse quello di avere ingenti quantitativi di argento e soprattutto di oro, cioè una moneta pregiata come mezzo di scambio. Ecco, in questo senso si può dire che il colonialismo fu una diretta conseguenza del capitalismo europeo, anche se ebbe delle ripercussioni fondamentali (ai fini p.es. dell'accumulazione dei capitali) sullo stesso sviluppo del capitalismo.


La scienza della navigazione



Cristoforo Colombo


I lunghi e pericolosi viaggi marittimi poterono essere intrapresi solo quando fu perfezionata la navigazione. I primi a trasformare la navigazione furono i portoghesi, che, utilizzando le due più importanti tradizioni navali del loro tempo: nordica e mediterranea (di quest'ultima, in particolare, essi presero come modelli la piccola imbarcazione araba, detta "karabo", usata per i commerci mediterranei, e un tipo di nave a tre alberi in uso a Genova), crearono un nuovo veliero: la caravella. Più lunga delle grosse navi da carico del XIII sec. e più corta delle galee e liburne romane (il rapporto tra lunghezza e larghezza andava da 3,3 a 3,8), la caravella era veloce e facilmente manovrabile, in virtù dell'uso simultaneo di poche vele diritte o quadre (per la propulsione in mare aperto) e di molte vele oblique o triangolari o latine (per la direzione), che le permettevano, con soli 20-30 marinai, di muoversi anche col vento sfavorevole. La necessità di aumentare la velocità e di guadagnare in stabilità aveva determinato l'allargamento della superficie delle vele e, di conseguenza, la trasformazione della chiglia, che si alzava in due parti ricurve uguali, in elemento portante della nave.
Nel Mediterraneo, dove le navi usavano vele latine, introdotte dagli arabi all'inizio del XIV sec., l'uso della vela quadra all'albero maestro e della latina a quello di mezzana, segnò una vera rivoluzione, anche se la vela quadra era già stata ampiamente usata nell'antichità greco-romana. Fin dalla metà del '400, navi di tre o quattro alberi erano la normalità.
La caravella aveva un unico timone di poppa, interno allo scafo, manovrato attraverso un'asta terminante in una ruota: esso sostituiva il timone esterno e i remi di governo. Il timoniere operava sotto il ponte di coperta ed aveva una visuale molto limitata. La stiva, molto capiente, era utile per le lunghe navigazioni. Lo scafo di scarso pescaggio (grazie alla chiglia "panciuta") consentiva di avventurarsi sui bassi fondali costieri e addirittura di risalire i fiumi per lunghi tratti.
Delle tre caravelle di Colombo, solo la Niña (50 tonnellate di stazza, 17 metri di lunghezza) e la Pinta (60 tonnellate di stazza, 21 metri di lunghezza), possono essere definite tali, in quanto la Santa Maria, nave ammiraglia (100 tonnellate di stazza, 26 metri di lunghezza) era piuttosto una "caracca". Essa si sfasciò durante il primo viaggio, mentre l'equipaggio costeggiava l'isola di Haiti.
La velocità della caravella sarà superata soltanto dai clippers, gli enormi velieri del XIX sec. La caravella, col tempo, si trasformerà nella fregata, nave tipica da guerra, passando dalla struttura in legno a quella in acciaio.



tre caravelle

Oltre a ciò furono adottati o migliorati la bussola (l'ago magnetico prima immerso nell'acqua, montato su un perno, ora viene inserito in una scatola, insieme ad un quadrante circolare, diviso in 32 punti: nord, nord-est, nord-nord-est ecc., formando la cosiddetta "rosa dei venti", indipendente dal movimento della nave), le carte nautiche (basate sul mappamondo di Toscanelli) e i portolani (libri particolari che descrivevano le coste e gli approdi: i portolani saranno prodotti come vere e proprie carte marine solo quando si generalizzerà la proiezione cartografica di Mercatore nel 1569), l'astrolabio (strumento goniometrico preso dagli arabi, con cui si calcolava la posizione degli astri e la latitudine), il quadrante nautico e la balestrigia (che facilitavano il calcolo della latitudine in mare), le tavole trigonometriche di martelogio (che permettevano di correggere in modo approssimato lo scarto fra il Nord e il polo magnetico indicato dalla bussola).
Qui si può precisare che molta di questa strumentazione, già in uso sulla terra per lo studio dei corpi celesti, venne adottata sulle navi proprio per intraprendere dei viaggi in mari sconosciuti. Per i navigatori era necessario imparare a determinare la posizione delle terre avvistate, in rapporto a precisi punti di riferimento (i corpi celesti), a cominciare dalla stella polare, la cui altezza, cioè l'angolo sopra l'orizzonte, diminuiva via via che una nave procedeva verso sud. Nell'emisfero australe, dove non era più possibile riferirsi alla stella polare, si ricorreva, sempre con l'aiuto dell'astrolabio, alla misurazione dell'altezza della meridiana del sole, il che comportava calcoli piuttosto complicati.
In ogni caso per tutto il '500 non fu possibile risolvere il problema della determinazione della longitudine. La navigazione in mare aperto era basata su una stima approssimata della velocità, della direzione e del tempo, integrata con osservazioni di latitudine. La stessa decisione di usare le Canarie come base di partenza del primo viaggio, era nata da un'errata valutazione di Colombo che, sulla scia del Toscanelli, credeva il Giappone (Cipango) non solo sulla stessa latitudine dell'arcipelago canario (28o parallelo), ma anche a una distanza inferiore ai 5000 km, mentre in realtà la distanza è di quasi 20.000 km. Fu dunque un caso che Colombo scoprì l'America.

La cartografia



mappamondo di Toscanelli

Un serio ostacolo all'organizzazione dei viaggi marittimi erano alcune opinioni geografiche che risultarono dominanti nei primi 1500 anni d.C., fondate sulla teoria di Tolomeo, uno scienziato dell'antica Grecia, la cui mappa terrestre fu comunque di gran lunga migliore di tutte le mappe prodotte nel Medioevo. Tolomeo ammetteva la sfericità della Terra, ma la restringeva all'8% della sua reale dimensione, mettendo l'equatore troppo a nord, al punto che a sud la sua mappa si fermava all'Etiopia. Inoltre sosteneva che l'Asia sud-orientale si congiungesse con l'Africa orientale e che l'Oceano Indiano era completamente racchiuso dalla terra (ignorava anche la natura peninsulare dell'India e l'esistenza dell'arcipelago indonesiano). In tal modo non sarebbe stato possibile passare dall'Oceano Atlantico all'Oceano Indiano e raggiungere, per via mare, le coste dall'Asia orientale. Inoltre nel Medioevo si credeva che presso l'equatore esistessero temperature così elevate da far "bollire" il mare e bruciare le navi. La vita sulla Terra era ritenuta possibile solo nelle zone climatiche temperate.
Molte di queste idee già nel sec. XIII, con Marco Polo e altri viaggiatori (inclusi i missionari francescani), erano state messe seriamente in discussione (si dimostrò, ad es., che la costa orientale dell'Asia era bagnata dal mare). Nel 1375 l'Atlante catalano dell'ebreo Abramo Cresques aveva presentato un'assoluta novità. Sino a quel momento si credeva che esistesse solo ciò che gli europei avevano visto: ora invece le terre che si sapevano esistere, ma che non si conoscevano, erano raffigurate in bianco, come "luogo sconosciuto" (le isole atlantiche, l'Estremo oriente e i regni africani oltre il Sahara).
Agli inizi del XV sec. si avanzò l'idea di poter raggiungere via mare la costa orientale dell'Asia, navigando dall'Europa verso occidente, attraverso l'Oceano Atlantico (vedi ad es. l'opera Imago Mundi del vescovo francese Pierre d'Ailly, del 1410, la carta geografica del cosmografo fiorentino Paolo Toscanelli e il mappamondo dell'astronomo di Norimberga, Martin Behaim). Naturalmente, per condividere un'idea del genere bisognava accettare l'ipotesi della sfericità della Terra e di un unico oceano che la bagnava (ipotesi peraltro già formulata da alcuni antichi scienziati greci). Verso la metà del '400 le mitiche Colonne d'Ercole, barriera del mondo conosciuto, si erano spostate in mezzo all'Atlantico. Il problema era diventato non solo quello di arrivarvi ma anche quello di ritornare in Europa. Non pochi casi erano finiti tragicamente.
Decisive furono le esperienze dei portoghesi che nel 1483-84 avevano superato l'equatore, dimostrando a tutti che la zona intertropicale era abitata e attraversabile. Era di colpo crollata la teoria tradizionale secondo cui agli Antipodi gli uomini non potessero stare in piedi e che le navi, scivolando verso sud, non potessero mai fare ritorno. Praticamente, alla fine del XV sec. la rotondità della terra non veniva messa in discussione da nessuno, se non da qualche ambiente clericale. Il merito di Colombo, in tal senso, sta piuttosto nell'aver saputo sfruttare, nel percorso di andata, i venti alisei che nel mese di settembre soffiano in modo regolare e costante presso le Canarie, e, nel percorso di ritorno, i venti occidentali.
Da notare che le mappe del capitano turco Piri Reis, scoperte nel 1929 negli archivi del Topkapi, essendo molto precise e di assoluta avanguardia per quei tempi, gettano una luce diversa sul patrimonio delle autentiche conoscenze nautiche a cavallo tra XV e XVI secolo. Forse a partire da esse gli studiosi riusciranno anche a risolvere il famoso mistero di una mappa segreta giunta nelle mani di Colombo prima della sua partenza per San Salvador.





Piri Reis - Sud America



L'arte militare



bombada XV secolo

Naturalmente senza il perfezionamento dell'arte militare, non sarebbero potute avvenire le esplorazioni marittime commerciali, poiché sia il Portogallo che la Spagna non scartarono mai a priori l'idea di dover usare la forza (soprattutto contro il mondo musulmano), pur di ottenere quello che cercavano. Furono la scoperta della polvere da sparo (miscela di carbone, zolfo e potassio) e i progressi nella lavorazione del ferro ad aprire la strada alla costruzione dei cannoni, in grado di lanciare bombe di ferro o di bronzo che esplodevano sino a mille metri di distanza. Con i cannoni (che perfezionarono le primitive bombarde, larghe di bocca e molto corte, capaci di lanciare solo palle di pietra lungo una traiettoria quasi circolare) si potevano distruggere torri, bastioni, castelli e assediare con successo le città; mentre con i proiettili dei fucili si poteva forare il ferro e il cuoio, rendendo così inutili le pesanti armature medievali. Le caravelle, nate come battelli da commercio, si potevano trasformare in navi da guerra, in grado di portare anche pesanti cannoni, da un minimo di 15 a un massimo di 40.

Il resto del mondo

E' bene però sottolineare che in questi secoli non era sviluppata solo l'Europa occidentale ma anche una buona parte dell'Asia. Indiani, cinesi, malesi e arabi avevano raggiunto già nel periodo medievale notevoli risultati nel campo delle conoscenze geografiche, nello sviluppo e nell'arte della navigazione negli oceani Indiano e Pacifico. Molto tempo prima della comparsa degli europei nell'Oceano Indiano, questi popoli avevano scoperto la grande via marittima sud-asiatica che collegava i Paesi dal Mar Rosso e dal Golfo Persico fino al Mar Cinese meridionale.
Come già detto, nel XV sec. il primato nel commercio e nella navigazione nel Mar Rosso, nel Golfo Persico e nella parte occidentale dell'Oceano Indiano, era passato agli arabi, che erano gli unici veri intermediari nel commercio dell'Asia meridionale con l'Europa. Le loro navi raggiungevano l'India, Ceylon, Giava, la Cina... Città e mercanti dell'Islam -ha scritto F. Braudel- s'impadronivano già di oro, avorio e schiavi sulla costa di Zanzibar e, attraverso il Sahara, nell'ansa del Niger.



Vasco de Gama 1460

Anche gli arabi disponevano di bussole, compassi, portolani, carte nautiche e di una vasta letteratura specializzata per la navigazione. Senza questa letteratura, l'arrivo dei portoghesi in India sarebbe stato sicuramente più difficoltoso. Quando le navi di Vasco de Gama, nel 1498, gettarono per la prima volta l'ancora nella città indiana di Calcutta, il loro pilota era il famoso marinaio Ahmed Ibn Madjid. Egli scrisse il Libro di dati utili sulle basi della scienza marinara e sulle sue regole, ove vengono minuziosamente delineate tutte le rotte nel Mar Rosso e nel Golfo Persico lungo l'Africa, verso l'India e verso l'arcipelago malese, fino alle coste della Cina e di Formosa.




ahmad-ibn-majid.1498

Solo il commercio marittimo nell'Asia sud-orientale era sostanzialmente nelle mani dei cinesi e dei malesi. La Cina, in particolare, era una grande potenza marinara. Già nel II secolo d.C. nei cantieri cantonesi si fabbricavano navi a quattro alberi, con una capacità di carico di 100 tonnellate.
La Cina esportava grandi quantità di seta, porcellane, oggetti d'arte, mentre importava spezie, cotone, erbe medicinali, vetro e altre merci. Nei suoi porti si costruivano vascelli per i viaggi di lungo percorso, in grado di contenere fino a mille marinai e soldati (scorta necessaria per fronteggiare i pirati dell'arcipelago malese). Queste navi erano mosse da vele fatte di canna, fissate su pennoni mobili: il che permetteva di mutarne la posizione a seconda della direzione del vento.
Le carte geografiche erano note da tempi immemorabili e alla fine dell'XI sec. le navi cinesi impiegavano regolarmente la bussola, mentre i loro marinai conoscevano alla perfezione i monsoni dei mari del Sud, le correnti marine, le secche, i tifoni, ecc. Nella prima metà del XV sec. essi avevano già realizzato grandi spedizioni militari e marittime nell'Oceano Indiano e nell'arcipelago malese, eliminando le numerose bande di pirati che ostacolavano lo sviluppo del loro commercio con i Paesi dell'Asia meridionale.
Tra il 1403 e il 1419 i cinesi erano riusciti a costruire delle navi di circa 100 metri di lunghezza. Si pensa addirittura che intorno al 1420 essi siano giunti al Capo di Buona Speranza. Ciò non può escludere l'ipotesi che la Cina o comunque l'Asia abbia tenuto contatti sporadici con l'America fino a poco tempo prima dell'arrivo degli europei.
Anche per i cinesi la Terra era composta da tre continenti: essi conoscevano il profilo sud-occidentale dell'Asia fino al Mar Rosso, la forma triangolare dell'Africa e l'esistenza del Mediterraneo. Inoltre, benché non conoscessero né il nome né il profilo dell'Europa, indicavano sulle loro carte un centinano di toponimi europei, tra cui Germania, Francia, Budapest... Alla fine del '500 saranno i gesuiti a introdurre in Cina la nuova immagine del mondo.

Perché Spagna e Portogallo


Sino a pochi anni fa si sosteneva che gli indios americani erano venuti dall'Asia (australiani, mongoli, popolazioni uraliche e malesi-polinesiani) attraverso lo stretto di Bering nell'età della pietra. Oggi invece, grazie alla nuove scoperte archeologiche, ai progressi nella stratigrafia e nell'uso del carbonio 14, si fa risalire tale migrazione a 40-80.000 anni prima della nostra era. Alcuni degli antichi abitatori dell'America possono essere giunti dall'Asia attraverso l'Antartico. Probabilmente tale migrazione è cessata circa 20.000 anni prima della nostra era. Comunque a tutt'oggi i reperti umani più antichi che si trovano in America risalgono a 15-20.000 anni fa.




indios

Non pochi studiosi oggi sono dell'avviso che i rapporti tra Asia e America siano continuati anche dopo la fine delle migrazioni. Troppe cose simili lo attestano: non solo oggetti di artigianato, sculture, ceramiche..., ma anche nell'ambito dell'architettura, della letteratura, della religione, delle tecniche agricole e di costruzione delle canoe, persino nei calendari e nell'alimentazione.



mappa delle tribù degli indiani d'america del nord

Esiste un documento cinese, conosciuto col nome di Storia delle dieci isole, che risale a due secoli prima di Cristo, e che narra di una spedizione di monaci buddisti diretti verso il continente americano, tornati in Asia dopo 40 anni, attraverso il Pacifico a sud.
Quando Colombo raggiunse per la prima volta la terraferma, nell'attuale territorio del canale di Panama, gli aborigeni gli comunicarono che sul versante opposto c'era il mare, anche se non sapevano che ci fosse un continente diverso dal loro.
Naturalmente nessuno dei fatti qui ricordati è sufficiente da solo a provare che gli asiatici abbiano "scoperto" l'America prima degli europei; anche perché questi contatti attraverso il Pacifico, se vi sono stati, non hanno prodotto effetti significativi sulle popolazioni del Nuovo Mondo. Alla "scoperta" non seguì la "conquista". E questo vale anche per alcuni europei pre-colombiani: si pensi a quel gruppo di monaci irlandesi, tra cui san Brendano, che nel VII sec. avrebbe -secondo una tradizione- varcato l'Atlantico. O al vichingo Leif Ericsson, che attorno all'anno mille, approdò in Vinlandia, l'attuale Terranova.
Oggi peraltro nessuno mette in discussione che gli scandinavi abbiano mantenuto piccoli stanziamenti nel nord-est del continente americano tra il IX e il XV sec., anche se non compresero di aver scoperto il Nuovo Mondo e non introdussero neppure i cavalli.
Era necessario elencare queste cose per sfatare anzitutto il mito che Spagna e Portogallo siano state le prime nazioni del mondo a metter piede in America. Gli europei non hanno "scoperto" l'America: semmai l'hanno fatto i primi emigranti asiatici, che hanno popolato un continente disabitato.
Meglio sarebbe dire che con Colombo inizia il colonialismo europeo di tipo capitalistico in un nuovo continente. E inizia in modo consapevole, poiché lo stesso Colombo, che per l'occasione cambiò il proprio cognome in Colòn (ripopolatore), negli anni 1497-98 elaborò un Memoriale, abbastanza dettagliato, di colonizzazione, rivolto ai Re Cattolici sul popolamento delle Indie. Nel 1500 scrisse una lettera a donna Juana de Torres in cui rivendicò esplicitamente il suo ruolo di conquistatore: "Io debbo essere giudicato come capitano inviato di Spagna a conquistare fino alle Indie gente bellicosa e numerosa, di costumi e credenza opposti ai nostri, la quale vive per balze e monti senza fissa dimora... Io debbo essere giudicato come capitano, che da tanto tempo ad oggi, porta le armi al fianco senza abbandonarle nemmeno un'ora e che comanda a cavalieri di conquista e a uomini d'azione e non a letterati". Il modello di colonialismo cui Colombo s'ispirava era evidentemente quello portoghese, che aveva realizzato grandi successi, nel decenni precedenti alla "scoperta" dell'America, sia in Africa che in Asia.
Molto tempo prima di Colombo vi era stato il colonialismo medievale delle crociate, indirizzato verso l'Europa orientale e il Medio oriente. Praticamente l'Europa occidentale, da quando è sorta l'istituzione della proprietà privata, è sempre stata caratterizzata da rapporti colonialistici col resto del mondo. Al tempo dei romani il ruolo veniva svolto dall'Italia nei confronti dell'Europa e dei paesi mediterranei.
Solo partendo da questo presupposto si può comprendere il motivo per cui Spagna e Portogallo, e non Cina o qualche paese arabo, hanno fatto dell'America un continente da sfruttare. Naturalmente non sarebbe inutile cercare di capire se il cristianesimo aveva in sé degli elementi che potevano essere usati meglio di quelli dell'islam o del buddismo, per un'operazione del genere. Gli studi, in questo senso, sono davvero pochi, almeno in Europa.
Ancora, in effetti, non è molto chiaro il motivo per cui sono state proprio le due nazioni più cattoliche d'Europa, quelle peraltro che si trovavano nelle peggiori condizioni per uno sviluppo capitalistico (si pensi soprattutto alla Spagna), a dare il via al moderno colonialismo borghese.
Probabilmente Spagna e Portogallo cercavano nelle avventure coloniali internazionali un modo pratico per non far morire l'ideale della cristianità, che nell'Europa umanistica e rinascimentale era entrato fortemente in crisi. Spagna e Portogallo, rimaste troppo indietro rispetto ai processi emancipativi del continente europeo, credettero di trovare nel colonialismo l'occasione della propria sopravvivenza in quanto nazioni "cattoliche".




reconquista

In questo senso la "Riconquista" antislamica non sortì l'effetto sperato, poiché alla omologazione ideologica non seguì il benessere economico. Eliminando ebrei e musulmani (cioè le classe e i ceti artigianali, commerciali e finanziari), gli spagnoli e i portoghesi non furono capaci di sostituirli con proprie forze sociali di tipo borghese, né seppero edificare un tipo di società più democratica. Il fallimento economico della "Riconquista" rese in un certo senso inevitabile, se si voleva salvaguardare inalterata l'ideologia cristiana, la sua prosecuzione aldilà dei confini nazionali.
Solo col passare del tempo, non senza drammi e tragedie, Spagna e Portogallo saranno costrette ad ammettere che il medioevo cattolico non aveva alcuna possibilità di contrastare l'emergente capitalismo protestante. L'ideale cristiano poteva sperare di sopravvivere solo dopo averlo negato.



INTER COETERA DI ALESSANDRO VI



Alessandro VI


Premessa

La bolla Inter Coetera, di papa Alessandro VI, scritta il 3 maggio 1493, su richiesta dei Re Cattolici di Spagna, è uno dei documenti più interessanti della chiesa cattolica rinascimentale, poiché con esso non solo si sanziona giuridicamente la nascita del colonialismo internazionale dell'Europa occidentale, ma si inaugura anche il moderno colonialismo ideologico e culturale del cattolicesimo romano, allora strettamente legato a quello ispano-portoghese.
A dir il vero, la bolla nacque per rivedere un trattato di spartizione imperiale circa le isole dell'Atlantico (isole già conosciute e ancora da conoscere), già stipulato, senza mediazione pontificia, nel 1479, tra Spagna e Portogallo, ad Alcaçovas (in virtù del quale la Spagna poté assicurarsi solo le Canarie).
Con la scoperta dell'America (che allora si pensava fosse la Cina), la Spagna decise di non rispettare quel trattato e, rivolgendosi direttamente al papa, sperava di evitare una guerra col Portogallo e di stipulare un nuovo trattato.
Il Portogallo, infatti, riteneva che proprio in virtù di quel trattato, le terre scoperte da Colombo gli appartenessero di diritto e, poiché la sue proteste presso la corte spagnola non avevano ottenuto alcun risultato, aveva allestito una flotta da guerra che doveva seguire Colombo nei futuri viaggi per occupare con la forza gli eventuali nuovi territori.
La bolla di Alessandro VI è quindi un documento più importante del trattato di Alcaçovas, poiché, essendo scritta dopo la scoperta dell'America, riguarda per la prima volta dei territori planetari, per quanto solo alcuni decenni dopo ci si convincerà dell'esistenza di un nuovo continente. La bolla, d'altra parte, non perderà valore neppure dopo tale acquisizione geografica, benché i successivi trattati di Tordesillas (1494) e soprattutto di Saragozza (1529) costituiranno delle notevoli precisazioni che i portoghesi vorranno fare a loro vantaggio. Saranno piuttosto le nuove potenze europee capitalistiche: Olanda, Inghilterra e Francia, a rendere inutile una qualunque mediazione pontificia.
Certo è che la chiesa non avrebbe mai prodotto questo documento se il colonialismo portoghese (già sotto la sua "protezione") non avesse avuto concorrenti di sorta: il documento infatti ha lo scopo di dirimere una controversia territoriale emersa tra i due principali paesi colonialisti di quel periodo, che la storia ha voluto fossero cattolici. Esso ha pure lo scopo d'impedire che altri Stati cattolici vogliano diventare colonialisti nelle stesse terre già occupate. La spartizione viene assicurata dalla chiesa non solo sulle terre già scoperte ma anche su quelle da scoprire.





Giovanni Botero

Come disse il gesuita Giovanni Botero, teorico della "ragion di stato", la chiesa romana si sentiva in dovere di riconoscere i possessi coloniali mondiali alle due nazioni europee che più avevano lottato contro ebrei e musulmani, cioè che più avevano manifestato il proprio integralismo politico-religioso.
Se il contenzioso fosse sorto tra un Portogallo cattolico e una Germania protestante, probabilmente non ci sarebbe stata alcuna mediazione pontificia, non foss'altro perché non ne sarebbe stata riconosciuta l'universalità da entrambe le parti. Se invece il contenzioso avesse coinvolto altri Paesi europei di religione cattolica, quest'ultimi, disposti certo a riconoscere l'universalità etico-religiosa della chiesa romana, non altrettanta disponibilità avrebbero manifestato per la pretesa universalità politico-giurisdizionale. E la chiesa post-medievale, dal canto suo, non sarebbe stata in grado di rivendicarla. Gli stessi sovrani iberico-lusitani gliela riconoscevano più che altro in maniera formale, in quanto, sul piano pratico, era la chiesa che doveva adattarsi alla forza delle loro armi. Già ai tempi di Sisto IV, che cercò d'imporre alla Castiglia vescovi di sua nomina, Isabella vi si oppose energicamente, anche se poi accetterà la proposta dello stesso papa di ripristinare l'antico tribunale dell'Inquisizione, gestito dalla corona (1481).




Isabella di Castiglia


Qui appare evidente che la Spagna intendeva servirsi della mediazione pontificia per darsi una patente di legalità nel caso in cui l'opposizione del Portogallo alla bolla avesse dovuto costringerla a dichiarargli guerra.
La storia comunque ha voluto che a legittimare il moderno colonialismo internazionale non fosse un'istituzione laica ma religiosa. Questo a prescindere dal fatto che le successive legittimazioni (laiche o a-cattoliche) conterranno aspetti colonialistici assai più anti-democratici del contenuto complessivo della bolla in oggetto.



Quadro storico

L'Inter Coetera venne scritta in un momento di grave crisi morale per la chiesa di Roma. Le uniche vere preoccupazioni dei pontefici parevano essere quelle di proteggere i loro parenti e di abbellire Roma con edifici prestigiosi.
Sul piano politico invece la situazione sembrava offrire alla chiesa una qualche possibilità di rivalsa, almeno nell'ambito dello Stato pontificio, dopo i 70 anni della cosiddetta "cattività avignonese" e dopo la nascita e lo sviluppo del movimento conciliarista (che negava al papato la priorità sul concilio, trovando, in questo, molti appoggi da parte dei governi laici).
Con grande tempismo politico, la chiesa di Roma seppe approfittare della richiesta bizantina di aiuti militari contro l'invasore ottomano, per imporre alla chiesa ortodossa, nel concilio di Ferrara-Firenze (1438-39), il riconoscimento della giurisdizione universale del pontefice. Il fenomeno conciliarista occidentale sembrava aver perso, d'improvviso, una qualunque giustificazione d'esistere.
Con la fine del "piccolo scisma d'occidente" (1439-49), che fu praticamente l'ultimo tentativo del conciliarismo d'imporsi restando nell'ambito del cattolicesimo, la Curia romana riprenderà totalmente il controllo della chiesa. Centralismo, fiscalismo e mondanità saranno poi le cause che scateneranno la Riforma protestante.
Tuttavia, il decreto d'unione non venne accettato dalle comunità ortodosse, che alla delegazione, rientrata a Costantinopoli, fecero sapere di preferire la dominazione turca a quella latina. Né il papato riuscì a organizzare una potente crociata antislamica, per imporre il decreto, agli ortodossi, con la forza. Ormai i tempi non invitavano più gli occidentali a impegnarsi in crociate neo-medievali. Senza considerare che nei confronti del mondo bizantino, l'occidente cattolico non ha mai nutrito alcuna simpatia.
Questo, benché, proprio a seguito di quel concilio, i teologi, i filosofi e i maestri di greco della delegazione che decisero di restare in Italia, contribuirono non poco allo sviluppo dell'Umanesimo e del neo-platonismo, nonché alla diffusione della lingua greca e a un rinnovato interesse per le tradizioni bizantine. Tanto per fare un es., un'opera fondamentale come quella del Valla sulla falsa Donazione di Costantino (1440) sarebbe stata impossibile con i soli strumenti della filologia.
Inoltre, le possibilità di fare affari, per i mercanti, si stavano lentamente spostando verso le nuove rotte coloniali portoghesi o verso il Mare del Nord, dove dominavano le città della Lega anseatica. In fondo l'obiettivo principale delle crociate medievali (e cioè quello di aprirsi uno spazio autonomo nel mercato mediterraneo, per commerciare in tutta Europa i prodotti orientali), i mercanti l'avevano raggiunto da un pezzo.




la Serenissima


E' vero che la parte del leone, in quell'impresa bisecolare che costò immani sacrifici, l'aveva praticamente fatta Venezia (che costringerà Genova a rivolgersi verso il Mediterraneo occidentale e i traffici ispano-portoghesi); ed è anche vero che proprio a seguito della spinta ottomana, Venezia era stata costretta a rivolgersi verso i porti del Nordafrica, della Siria, dell'Egitto. Ma è anche vero che, nel complesso, la borghesia occidentale (si pensi anche a quella, sempre più legata alla manifattura, di paesi come Olanda, Inghilterra e Francia) stava vivendo un momento di crescente benessere. Per cui il papato non poteva più contare sulle stesse motivazioni sociali che nei secoli precedenti avevano spinto migliaia di persone a combattere per la "giusta causa" del colonialismo.
Probabilmente, se dopo la caduta di Costantinopoli (1453), gli spagnoli non avessero avuto il coraggio di attraversare l'Atlantico (emulando, in questo, il coraggio portoghese di scendere sotto l'equatore), la borghesia occidentale (Venezia esclusa) non avrebbe potuto disinteressarsi, con così relativa facilità, dei traffici mediterranei (lo dimostra la discesa di Carlo VIII in Italia, ma gli stessi aragonesi nel Mediterraneo svolgeranno sempre una politica antiveneziana). D'altra parte fu anche l'atteggiamento monopolistico di Venezia (che a questi traffici non vorrà rinunciare neppure dopo il 1453) a indurre le borghesie degli altri paesi a cercare nuovi sbocchi per le loro merci e soprattutto altre fonti (meno costose) per le loro materie prime.




soldati aragonesi

Il papato, quindi, in questa seconda metà del XV sec., deve tener testa a tre avversari di tutto rispetto: 1) la crescente laicizzazione dei costumi e dei valori (soprattutto nell'area di cultura umanistica e rinascimentale: fenomeno, allora, tipico degli intellettuali); 2) l'emancipazione socio-economica della borghesia, che vuole rinnovare profondamente la struttura e l'ideologia della chiesa cattolica (da qui prenderà le mosse il movimento riformistico); 3) l'affermata autonomia politica dei sovrani cattolici, che vogliono agire senza dover rendere conto ad alcun contropotere, senza cioè dover temere che l'arma della scomunica possa bloccare ogni loro iniziativa.
Il papato è ancora potente economicamente, anche se politicamente il suo potere lo esercita soprattutto, in maniera diretta, senza la mediazione del sovrano cattolico, nell'ambito del proprio Stato. Illusosi di aver superato la minaccia del movimento conciliarista, e relativamente soddisfatto della fine dell'impero bizantino, il papato non sospetta neanche lontanamente che tutte le idee conciliariste ed ereticali verranno riprese, di lì a poco, dalla grande Riforma protestante, e che in Europa orientale la Russia degli zar si farà carico di proseguire il conciliarismo della chiesa bizantina.

Alessandro VI (1492-1503)



papa Leone X

Papa Alessandro VI rappresenta un esempio davvero illustre (ma i suoi successori, Giulio II e Leone X, non gli furono da meno) del livello di corruzione morale e di prepotenza politica della chiesa romana di quel periodo.




papa Rodrigo Borgia

Di origine spagnola, Rodrigo Borgia venne nominato cardinale a soli 25 anni; salì al soglio pontificio per simonia; ebbe cinque figli, tra i quali Cesare e Lucrezia, dei quali erano noti la spregiudicatezza morale e politica; fece di tutto, senza però riuscirvi, a ricavare in Romagna un dominio per il figlio Cesare; dilapidò il patrimonio della chiesa per arricchire i propri familiari, anzi, fu il primo a trasformare la corte pontificia in reggia principesca, strutturata in modo tale da mettere in risalto la venerazione rituale riservata alla dinastia; fu responsabile della morte per impiccagione e rogo del predicatore domenicano Girolamo Savonarola, al quale aveva offerto la porpora cardinalizia pur di farlo tacere. In conflitto con gli aragonesi per i diritti su alcuni feudi nel regno napoletano, preferì prendere le loro difese (perché li considerava più deboli) contro i francesi che con Carlo VIII erano scesi in Italia per occuparla. Si sospetta infine che sia stato avvelenato.
Questo, in sintesi, l'identikit dell'autore della bolla che stiamo per prendere in esame.


Il testo


Il testo, che è il primo di una serie di quattro bolle, dedicate tutte al medesimo argomento: Inter coetera, del giorno dopo, Dudum Siquidem (26.09.1493) e Eximiae devotionis (16.11.1501), esordisce affermando due cose: 1) "la fede cattolica" (e non ortodossa, benché anche questa pretenda di far parte della "religione cristiana") va diffusa in ogni luogo; 2) "i popoli barbari" (cioè non-europei o comunque tutti coloro che non appartenevano a una delle tre religioni monoteistiche: cristiani, ebrei e islamici. "Barbaro" infatti è un epiteto pesante, che la chiesa cattolica riferiva soprattutto ai popoli "pagani", "politeisti" o "idolatri"): questi popoli vanno "vinti" (sottinteso: militarmente) e poi "condotti alla fede" (spada e croce sono indissolubili).
Il testo poi prosegue elencando i fatti e i motivi dai quali la chiesa di Roma può, secondo ragione, far dipendere la concessione del riconoscimento giuridico delle nuove proprietà spagnole in America (che ancora si pensava fosse la Cina).
1) Imparzialità assoluta del pontefice, eletto "col favore della clemenza divina (senza nostro merito)". Questa frase di Alessandro VI, che appare più volte, può essere stata ispirata da due diverse preoccupazioni, non antitetiche ma complementari: anzitutto quella di delegittimare una delle accuse più gravi che a quel tempo gli intellettuali progressisti gli muovevano (e per la quale il Savonarola verrà giustiziato nel 1498): l'accusa di simonia. In questo senso la sottolineatura del pontefice potrebbe anche stare a significare che, essendo la cathedra Petri un'istituzione divina, che prescinde dalla personalità o dalle caratteristiche soggettive di chi la occupa, ogni sovrano, di conseguenza, era tenuto ad accettare la bolla senza discuterla, proprio perché scritta da colui che, attraverso Pietro, rappresentava la volontà di Dio.





Girolamo Savonarola

Il secondo motivo della precisazione può essere stato invece più etico e meno politico, anche se ugualmente importante. Probabilmente Alessandro VI -essendo di origine spagnola- aveva bisogno di difendersi in anticipo dall'inevitabile insinuazione d'aver compiuto un favoritismo nei confronti dei "Re Cattolici" (titolo, questo, ch'egli conferirà ai sovrani di Spagna nel 1494).




stemma dei respagnoli cattolici

2) Spontanea iniziativa del gesto ecclesiale: la concessione del riconoscimento giuridico viene fatta -dice il papa- "per nostra pura liberalità", "non dietro richiesta", "a titolo di favore". Qui si possono precisare alcune cose: anzitutto, secondo il diritto ecclesiastico allora vigente, tutta la terra (come pianeta) apparteneva al Cristo e, quindi, essendone il vicario, al papa, il quale così poteva concederla in usufrutto ai sovrani di religione cattolica; in secondo luogo, una terra non posseduta da un sovrano cattolico veniva considerata "senza proprietario", anche se essa era rivendicata da un proprietario non-cattolico; in terzo luogo, il principio della "donazione delle terre scoperte" tutti i pontefici precedenti ad Alessandro VI l'avevano applicato alle conquiste dei portoghesi.
3) Il "favore" di cui parla il pontefice non va inteso in senso giuridico ma morale. La concessione veniva fatta riconoscendo ai sovrani cattolici (in particolare Alessandro VI si riferisce a Isabella di Castiglia) i sacrifici ("fatiche, spese, pericoli") sostenuti contro i saraceni. Questo è dunque, per la chiesa, un modo di ricompensare (senza obblighi legali) quella nazione che più si era impegnata, per la fede religiosa, sul piano militare, politico ed economico. La "conquista" del Nuovo Mondo non era che il premio per la "riconquista" cattolica della Spagna.
Alessandro VI, in particolare, afferma che se la Spagna era arrivata "seconda" sulle stesse terre che i lusitani avevano scoperto o conquistato per altre vie (si ricordi che l'America corrispondeva alla Cina), ciò non doveva penalizzarla nella spartizione delle colonie, poiché il ritardo era dovuto a un fattore contingente assai importante: la Riconquista.
4) D'altra parte -dice ancora il pontefice- i sovrani spagnoli non solo hanno desiderio di diffondere la fede cattolica, ma hanno anche l'esigenza di doverlo fare in modo legittimo. Il "santo e lodevole proposito" di evangelizzare tutta la terra (questa espressione viene ripetuta più volte nel testo) è, secondo la chiesa, il motivo principale che giustifica il colonialismo ispano-portoghese. Non c'è ragione, quindi, di non concedere in dono e "in perpetuo", cioè anche agli eredi e successori dei sovrani spagnoli (a prescindere cioè dal tipo o dalla qualità dell'evangelizzazione), il favore in oggetto.
5) Anche il giudizio su Colombo è estremamente positivo. Benché l'avesse conosciuto solo attraverso la Lettera a Santàngel, Alessandro VI lo chiama "nostro diletto figlio": forse per suggerire l'idea, conoscendo la "religiosità" del genovese, che il colonialismo era nato sotto buoni auspici e che avrebbe continuato a dare buoni frutti se l'interesse della corona di fosse strettamente unito a quello dell'altare. O forse il pontefice voleva far leva sull'origine italiana di Colombo per dimostrare che indirettamente la chiesa di Roma aveva concorso alla scoperta dell'America.
Non dobbiamo infatti dimenticare che questa bolla non è solo un documento con cui si concede il favore del riconoscimento giuridico della conquista, ma è anche un documento con cui, in cambio del favore, si chiede un compenso relativo agli interessi della chiesa.


L'interesse della chiesa


Alessandro VI non si era servito solo della Lettera a Santàngel, per scrivere la bolla, ma anche di altre fonti non citate. Nella Lettera infatti non era stato detto che gli indigeni fossero vegetariani. In ogni caso, ch'essi siano così o anche "numerosi", "pacifici" e "ignudi", ciò per Alessandro VI non rappresenta più di una mera curiosità folclorica.
La vera caratteristica che gli preme sottolineare è che il loro "monoteismo" primitivo, ingenuo, istintivo, va perfezionato col cattolicesimo, che, unico al mondo, è in grado di "educare ai buoni costumi". Qui il pontefice dà per scontato che le conversioni degli indigeni siano già relativamente facili.
Il pontefice ricorda anche la guarnigione lasciata da Colombo a Navedad, ad Haiti, e senza volerlo si contraddice laddove afferma, dopo aver parlato di "indios pacifici", che la "torre ben munita" doveva essere difesa dai cristiani contro gli indios.
In effetti, al pontefice non interessava approfondire il discorso sulle civiltà indigene: gli bastava credere (in fede o per convenienza non importa) in ciò che Colombo aveva scritto circa la scoperta di "oro, spezie e moltissime altre cose preziose". Anche per lui era del tutto normale unire profitto e fede.




maia

La chiesa giustificava il profitto in nome della fede; la Spagna lo giustificava servendosi della fede: la differenza era minima. In fondo la chiesa di Roma aveva le stesse esigenze della Spagna: recuperare nel Nuovo Mondo ciò che non poteva più sperare di ottenere (o addirittura di conservare) in Europa, soprattutto sul piano politico ed economico. La Spagna voleva diventare una grande potenza europea restando sostanzialmente feudale, mentre molte altre nazioni stavano diventando borghesi: e ciò la costringerà a cercare uno sbocco "salvifico" nel Nuovo Mondo. La chiesa, che non poteva più contare sulle proprie forze, cercava di ridiventare una grande potenza appoggiandosi al colonialismo della Spagna. Questa si limitava a usare la fede come uno strumento ideologico al servizio della conquista militare e politica; quella invece credeva che la fede, come ideale religioso, potesse sopravvivere politicamente soltanto su nuove basi economiche.
Il papa concesse il favore tracciando una linea retta (raya) dall'Artico all'Antartico, cento leghe a ovest delle isole di Capo Verde (al largo dell'attuale Senegal), assegnando al Portogallo tutte le nuove scoperte a oriente di quella linea, e alla Spagna tutte quelle a "occidente e mezzogiorno".
In cambio di questo favore, il papa chiederà ai Re Cattolici: 1) che istruiscano per l'America dei missionari qualificati, capaci di evangelizzare nel miglior modo possibile; 2) che vietino a chiunque di recarsi nelle Indie "per commercio o altre ragioni" (ad es. per scopi missionari), "senza speciale permesso vostro", altrimenti il soggetto subirà la scomunica latae sententiae, cioè immediata.
La chiesa, insomma, convinta che il sovrano spagnolo non voglia aver a che fare con possibili recriminazioni da parte di altre potenze commerciali e marittime europee, chiede anche che non vi siano, sul nuovo terreno missionario, rivali nella predicazione.




aztechi


A dir il vero, appena tre anni dopo la pubblicazione della bolla, Enrico VII, re d'Inghilterra, violò la  raya cogliendo come pretesto il fatto che nel divieto del papa si erano citati l'ovest e il sud ma non il nord. Convinto che Colombo avesse scoperto un'isola e non le Indie, e che queste potessero essere scoperte con una rotta più settentrionale di quella di Colombo, il re favorì la spedizione del veneziano Giovanni Caboto, che partì da Bristol giungendo in Labrador, Terranova e Nuova Scozia. Anche Caboto sarà però convinto d'aver scoperto una parte dei domini del Gran Khan. Probabilmente non scoppiò una guerra, in quell'occasione, solo perché il successore di Enrico VII, Enrico VIII, si disinteressò dell'America, vedendo che non si realizzavano i profitti previsti. Tuttavia i commerci continuarono, anche se i mercanti inglesi, con capitale a rischio, per un certo periodo di tempo non poterono colonizzare o lasciare depositi stabili nelle colonie.
Piuttosto fu il Portogallo che non soddisfatto della bolla del pontefice, pretese, col trattato di Tordesillas, di spostare la raya di altre 170 leghe a ovest: cosa che poi lo porterà ad annettersi il Brasile.
Grazie dunque ai sovrani cattolici, il papato poté approfittare della situazione per far valere la propria autorità morale e giuridica, mostrando, in particolare, che senza la sua mediazione legittimante, non sarebbe stato possibile proseguire in modo "corretto" la gestione politica ed economica delle colonie acquisite. Il pontefice, tuttavia, doveva essere ben consapevole che se il Portogallo non avesse accettato le proposte indicate in questo documento, una guerra contro la Spagna sarebbe stata inevitabile, poiché egli non avrebbe avuto la forza d'impedirla. La guerra poi scoppierà un secolo dopo e porterà il Portogallo a una disastrosa rovina.


CORTÉS, DIO E DISTRUTTORE:
IL GENOCIDIO DEGLI AZTECHI



Montezuma II

Correva l'anno 1519 dell'era cristiana, a Tecochtitlan, capitale dei domini aztechi. Moctezuma II, nono tlatoani a regnare (la definizione tlatoani indica il governante supremo scelto tra i membri della nobiltà ereditaria detta pipiltin), era inquieto. Chi erano quegli uomini "pallidi come la luna, coperti di metallo, su enormi animali sconosciuti, con strane lance senza punta che sputano fuoco, orci che eruttano fiamme e distruggono tutto fino a mille passi?". Moctezuma II Xocoyotzin Il Giovane, nel 1519, era il signore degli Aztechi, che possedevano un impero che si estendeva dalla capitale Tenochtitlàn (con 300.000 abitanti) fino all'Atlantico. Era salito al trono nel 1502, quando l'impero viveva un periodo di decadenza a causa di frequenti rivolte dei popoli subordinati, tenuti a freno dalla sola forza militare.



tenochtitlan-resti


possedevano un impero che si estendeva dalla capitale Tenochtitlàn (con 300.000 abitanti) fino all'Atlantico. Era salito al trono nel 1502, quando l'impero viveva un periodo di decadenza a causa di frequenti rivolte dei popoli subordinati, tenuti a freno dalla sola forza militare.
Gli Aztechi - Mexica, detti il popolo "del cactus, dell'aquila e del serpente sul cuore palpitante", immagine tramandata nei codici dipinti ed ora simbolo centrale nella bandiera messicana, sono famosi e ricordati soprattutto per quegli inquietanti riti legati ai sacrifici umani che tanto inorridirono gli spietati Conquistadores spagnoli che, guidati da Hernàn Cortés, s'impadronirono del Messico per conto della corona di Spagna a partire dal 1519. Gli Spagnoli, trenta anni dopo Colombo, faticarono ad addentrarsi nella penisola dello Yucatan per le difficili condizioni ambientali. Ottimo capitano, buon soldato, uomo dal carattere rude e battagliero, crudele e coraggioso, Hernán Cortés impersona, come nessun altro, la figura del "conquistador".




Hernan Cortes.


Fedele al Re di Spagna e religioso quanto basta, Cortés cercava la ricchezza per sé e per la sua patria ed era invaso dallo spirito di avventura che lo spinse a non fermarsi mai. Nato a Medellin, nel 1485, da famiglia di piccola nobiltà, dopo un paio d'anni di studi letterari all'Università di Salamanca, scelse la carriera militare. Nel 1504 venne inviato a Santo Domingo, dove iniziò il suo rapporto burrascoso con Diego Velásquez, futuro governatore di Cuba, che, prima lo mise agli arresti, e poi gli affidò la terza spedizione in Messico, dopo i falliti tentativi dei capitani Francisco de Córdoba e Juan de Grijalva. Dal 1515 Cuba aveva soppiantato Hispaniola come roccaforte spagnola. Di lì cominciò l'espansione verso il Messico. In realtà è controverso l'appoggio ufficiale alla sua spedizione.
Nella scoperta del Nuovo Mondo, e poi nella sua conquista, l'iniziativa individuale fu un elemento importante: a compiere entrambe furono piccoli gruppi di uomini, non la cristianità nel suo complesso. Nel 1519 Cortés approdò a Cozumel, dove recuperò il naufrago spagnolo Jerónimo de Aguilar. Sulla costa del Golfo il capitano venne accolto amichevolmente dai Totonachi, che divennero suoi alleati nella guerra contro l'Impero azteco-mexica. Nel frattempo, il governatore di Cuba si pentì di questa spedizione e cercò di richiamare Cortés, che, per tutta risposta, fece incendiare le proprie navi e fondò simbolicamente la città di Veracruz, dichiarandosi sotto la diretta autorità del Re di Spagna; la città fu trasformata in una municipalità, entità territoriale sottoposta direttamente alla giurisdizione del re e di cui solo Cortés era arbitro, scavalcando così l'autorità dei viceré spagnoli fino ad allora insediatisi.

L'hidalgo, che aveva come seguito 550 uomini, fra cui 32 balestrieri e 13 archibugieri, 16 cavalli e 10 cannoni su 11 vascelli, proseguì la marcia verso Tenochtitlán: quando giunse nella capitale azteca, fu trattato con grande riguardo, accompagnato dal re al Templo Mayor (la più grande piramide azteca) della Città di Dio. L'impero azteco, affascinante, potente e misterioso, era all'apice della sua potenza e della sua espressione artistica e culturale. Una cultura complessa, caratterizzata da un lato dall'esaltazione della vita, della bellezza, della natura e delle grandi architetture, ma dall'altro segnata da una cupa religiosità, timorosa degli eventi naturali, dominata dall'oroscopo e dai presagi e legata i terrificanti sacrifici umani.



quetzalcoatl


Gli Spagnoli erano stupefatti ed ammirati per l'alto livello di sviluppo raggiunto da quella inaspettata civiltà del Nuovo Mondo, i Mexica - Aztechi, eredi dei Toltechi, che avevano fondato un grande regno con capitale Tula a 90 Km circa da Città del Messico. L'incontro tra i due mondi, presto tragicamente trasformato in conflitto, portò all'inesorabile declino del popolo azteco. Ma, procediamo con ordine. "La grande città […] è costruita sulla laguna salata e dista, in qualunque punto, due leghe dalla riva. Vi si può accedere da quattro parti attraverso strade ben costruite, della larghezza di due lance. È grande come Siviglia o Cordoba. […] La piazza più grande è due volte quella della città di Salamanca, interamente circondata di portici. Dove, ogni girono, tra compratori e venditori, ci saranno più di sessantamila persone":
Così si legge ne "La conquista del Messico", la cronaca di una vittoria annunciata scritta dallo stesso Cortés, che giunse a Tenochtitlàn l'8 novembre 1519, dopo un viaggio durato sei mesi. Arrivò in una città di circa 300.000 abitanti, più grande di Londra o Parigi in quel tempo, con strade ampie e pulite, canali percorsi incessantemente da canoe che la rifornivano di tutti i beni dell'Impero. Proprio nel 1519, secondo le credenze azteche, era predestinato il ritorno del Dio Quetzalcoatl atteso ogni 52 anni, il famoso Serpente Piumato, che, dal caos primitivo aveva creato gli uomini e la Terra ( un disco con 9-13 cieli e mondi sotterranei), poi si era consumato tra le fiamme, ma era destinato a tornare per redimere gli uomini sotto forma di "nuvola bianca".
Gli Dei del Sole si nutrivano con il sangue del cuore umano: di qui i crudeli riti sacrificali alla presenza del popolo (estirpazione del cuore e consumazione dell'offerta). In quel tempo era continuamente vagheggiato, dai sacerdoti e dai poeti, il ritorno di Quetzalcoatl. A Texcoco, il preveggente re Nezahualpilli aveva preannunciato drammatici cambiamenti. Moctezuma II era stato turbato da alcuni segni premonitori, presagi dell'arrivo di un disastro: gli era apparsa una cometa, un tempio si era incendiato spontaneamente, la laguna di Mexico si era gonfiata di onde spaventose in assenza di vento e sembrava ribollire.  



Messico - sacrifici aztechi

Il "popolo del Sole" era rimasto sconcertato da questa serie di presagi e prodigi che avevano preannunciato ciò che sarebbe accaduto: quando nel Golfo del Messico comparvero navi "grandi come montagne", che trasportavano "cervi enormi" (i cavalli) con in groppa uomini armati di cui si scorgevano solo i volti, l'impressione che il destino si stesse per compiere fu notevole. Quetzalcoatl era venuto da Est: ad Est era tornato; era bianco e barbuto. E l'Est era il luogo di origine degli eroici antenati dei Maya. Gli Aztechi scorsero nei Castigliani gli dei che tornavano. Nella fattispecie si trattò dell'arrivo di Cortés che, inizialmente, fu accolto come un Dio: Moctezuma gli offrì doni e vittime da sacrificare, rifiutate, queste ultime, dallo sdegnato Cortés.
Allora il re azteco, descritto dai cronisti come un uomo incerto e rassegnato, cambiò atteggiamento ed ordinò l'espulsione degli intrusi. Gli Spagnoli, con i loro cavalli, mostri sconosciuti, e le armi da fuoco, resistettero. Ed avanzarono verso l'interno. Trascorsero sei mesi di scontri e promesse, durante i quali Cortés stringeva un numero crescente di alleanze con gli indios, stanchi del predominio azteco, e Moctezuma si convinceva sempre più, non intimorito non dalle armature e dalle armi potenti, ma dall'interpretazione di alcuni segni profetici, che il conquistador spagnolo fosse almeno un messo del Dio e così gli si rivolgeva:
"Per il fatto che voi dite di venire da quella parte del mondo dove si leva il Sole, e per tutto quello che raccontate del potente re che vi ha mandati, siamo convinti che egli sia il nostro antico signore". Cortés non perse tempo a far valere l'autorità di Carlo V, imperatore di Germania e cristianissimo re di Spagna: esortò i sudditi a giurare fedeltà alla Spagna, fece abbattere gli idoli, ponendo, al loro posto, nei templi, le immagini della Vergine, non prima di aver fatto lavare il sangue dei sacrifici. Mise al potere i suoi uomini e, il 22 maggio del 1520, data della Festa di Toxcal, Pedro De Alvarado, braccio destro di Cortés, massacrò l'intera nobiltà messicana, disarmata, riunita per celebrare il Dio Huitzilpochtli: 10.000 morti.




battaglia spagnoli - aztechi


Nel frattempo, il governatore Velasquez, dopo aver accusato Cortés presso la Corte spagnola, l'aveva fatto dichiarare ribelle, ottenendo l'invio contro di lui di un contingente di truppe comandate da Narvàez. La notizia dello sbarco di quest'ultimo indusse Cortés a lasciare a Tenochtitlàn una piccola guarnigione, mentre egli stesso, con truppe raccogliticce, piombava sul rivale, sbaragliandolo: i soldati di Narvàez si unirono a Cortés, che rientrò nella capitale messicana il 24 giugno del 1520, proprio alla vigilia di una insurrezione generale contro gli Spagnoli da parte degli Aztechi esasperati dalle imposizioni e persecuzioni di Alvarado.



arresto di Moctezuma

Moctezuma venne preso in ostaggio nella cittadella sacra. L'orgoglio azteco rifulse. Tenochtitlàn insorse, liberando il suo re, che rimase ucciso negli scontri (27 giugno 1520) e gli Spagnoli furono costretti a fuggire dalla città, assediati da forze preponderanti. Durante la ritirata, sulla grande massicciata che congiungeva Tenochtitlàn con la terraferma, gli Spagnoli ed i loro alleati indigeni di Tlaxcala furono assaliti e, in parte, massacrati in un feroce corpo a corpo notturno nella notte senza luna o Noche triste del 30 giugno del 1520. Presero il potere il fratello del re, Cuittlahuac, ed il nipote, Cuauhtemoc. Ormai la "triplice alleanza" era in pezzi. La città di Texcoco passò dalla parte dei conquistatori. Con l'aiuto degli alleati traditori, la capitale venne assediata, riconquistata e distrutta, cadendo il 13 agosto del 1521, a due anni dall'arrivo degli europei, con perdite umane che ammontavano a 120.000 uomini.
Nel 1525 terminò, definitivamente, la resistenza azteca, con l'impiccagione degli ultimi capi. La disfatta e la sconfitta della popolazione azteca non può non essere collegata alle manifestazioni psicologico-ritualistiche collettive dell'attesa di eventi che avrebbero segnato, tra angoscia e tragedia, il loro destino. Gli Aztechi decifrarono la Conquista in chiave magica e nell'ottica profetica del ritorno dal mare del dio Quetzalcoatl (il conquistador fu molto abile ad alimentare questa convinzione).

In altre parole, l'imperatore Moctezuma non era riuscito ad inserire l'arrivo di Cortés nel suo universo mentale e, di conseguenza, non era riuscito a comprenderlo. Ma, di fronte alla cupidigia ed alla furia devastatrice degli Spagnoli, presto si ricredette, ma a nulla servì. Gli storici aztechi riferiscono del trauma profondo che investì la popolazione dopo una conquista drammatica e tragica, come testimonia il "canto triste" degli ultimi difensori della capitale Tenochtilan. Per gli Aztechi la caduta della città non fu un semplice episodio militare, ma la fine del "regno del Sole", nato per sottomettere i popoli che, ai quattro punti cardinali, circondavano il Messico, disfatta, comunque, subita con rassegnazione, in quanto voluta dagli Dei.
L'aspetto che più colpisce della conquista dell'impero azteco è proprio la rapidità e facilità con cui fu effettuata. Più fattori concorsero alla vittoria di un pugno di uomini guidati da Cortés su un impero organizzato con eserciti numerosi. Superiorità militare? Nella fattispecie si trattò di una superiorità tutt'altro che assoluta. Gli Amerindi non conoscevano le armi da fuoco e restarono inizialmente disorientati di fronte agli archibugi. Ben presto, però, superarono lo smarrimento iniziale anche perché nelle zone umide la polvere da sparo era inutilizzabile, così come inutilizzabile era l'armatura in ferro dei Castigliani.
Entrambi gli eserciti coprivano il loro busto con una tunica di pelle imbottita (escaupil) che resisteva alla freccia scagliata dalla balestra castigliana. I conquistatori, inoltre, impiegavano nei combattimenti i cavalli ed i cani addestrati. I primi, sconosciuti nelle Americhe, potevano essere utilizzati solo in campo aperto a differenza dei cani utilizzabili soltanto sugli altipiani scoscesi. Anche in questi casi la resistenza amerindiana seppe trovare soluzioni adeguate. Per fermare la corsa dei cavalli furono introdotte le baleadoras (fasce di cuoio cui erano legate dei sassi) lanciate tra le zampe dei cavalli. Si tenga anche presente la diversa tecnica di combattimento degli Aztechi rispetto a quella dei popolacas (barboni venuti dal mare).
I primi preferivano abbattere un cavallo piuttosto che "dieci cristiani", come narrano le cronache spagnole. Ciò perché il cavaliere catturato sarebbe stato sacrificato agli dei. Cortés puntò sulle divisioni esistenti all'interno dell'Impero. Infatti, sul piano militare contarono molto di più le alleanze che i Castigliani stabilirono coi popoli sottomessi: infatti, gli Alaxtaltechi furono preziosi alleati dei conquistatori nelle battaglie campali contro gli Aztechi, appena usciti da una grave crisi economica che aveva falcidiato la popolazione. Complici decisivi dei conquistatori furono anche le caste dominanti intermedie degli Imperi amerindi, quali militari e funzionari.
La conquista non si limitò al piano militare:
essa imponeva la disarticolazione della società azteca e, nel lungo periodo, dei sistemi di vita e di pensiero. Si trattava di "conquistare" le coscienze. La dimensione religiosa della conquista si scagliò sull'universo magico dei segni premonitori che i grandi sacerdoti aztechi provvedevano a decifrare. Impadronitisi dell'Impero azteco, iniziò lo sfruttamento delle risorse. Bernal Diaz Del Castillo ha narrato l'emozione spagnola quando furono scoperti gli ori aztechi, che furono ridotti in barre, più facilmente trasportabili, custoditi presso la Casa del Tesoro. Tenochtitlán-Città del Messico divenne la capitale della "Nuova Spagna del Mare Oceano" e Cortés, dopo le sue prestigiose vittorie, aveva riqualificato il suo prestigio presso Carlo V, che lo nominò governatore (1522).
Il conquistatore seppe far fruttare la propria vittoria e diede avvio allo sfruttamento economico delle colonie. Dopo aver depredato gli Aztechi delle proprie ricchezze, inviò spedizioni nel cratere del Popocatepetl alla ricerca di zolfo con cui fabbricare polvere da cannone. Favorì l'estrazione di rame e di stagno e cominciò ad impiantare rudimentali fonderie per la fabbricazione di cannoni di bronzo, utilizzando manodopera locale, mantenuta in una condizione servile. Cortés fu anche gratificato di una encomienda di 40.000 chilometri quadrati con una popolazione di 100.000 unità, ma il suo potere fu esautorato nel 1535 dall'arrivo del viceré della Nuova Spagna.
Lasciando dietro di sé una popolazione stremata dalla guerra e dimezzata dalle stragi e dalle malattie portate dagli Europei, Cortés partì con le sue truppe alla conquista di tutte le terre dominate un tempo dall'Impero azteco, spingendosi fino in Honduras. Nel 1528 Cortés, ormai ricco, ma poco stimato per il suo carattere indisciplinato e per alcune presunte irregolarità amministrative, fu richiamato in Spagna, dove gli venne tolta la carica di governatore. Dopo pochi mesi ripartì per il Messico con il titolo di Marchese della Valle di Oaxaca. Il nuovo Vicerè aveva poca simpatia per lui, che preferì imbarcarsi con le sue truppe alla ricerca di nuove terre e, nel 1535, raggiunse la California. Ma il Re lo rivolle in Spagna per combattere in Algeria, una sfortunata spedizione che vide l'esercito spagnolo sconfitto nel 1541. Cortés decise, allora, di ritirarsi a vita privata nella sua proprietà a Castileja di Cuesta, dove morì nel 1547. La sua salma, come egli stesso aveva chiesto prima di morire, fu inviata a Città del Messico e tumulata nella chiesa di Gesù Nazareno. Di lui rimangono le cinque lunghe lettere inviate a Carlo V, che compongono la Relazione della conquista del Messico, redatte tra il 1519 ed il 1526.

L'OCCASIONE PERDUTA DI COLOMBO

Il 15 febbraio 1493, Cristoforo Colombo, dal Mar delle Azzorre, scrisse una lettera al cancelliere dei Re Cattolici di Spagna, Luis de Santangel, che l'aveva aiutato a trovare i finanziamenti per il suo primo viaggio oltreoceano (una copia di questa lettera venne spedita a Gabriel Sanchez, tesoriere della corte aragonese, anch'egli sostenitore del viaggio). Luis de Santangel, il cui casato da generazioni era legato ai sovrani d'Aragona, era un converso d'origine ebraica, salvatosi dall'Inquisizione solo perché protetto da re Ferdinando. Fu proprio lui che suggerì a Isabella di Castiglia, già moglie di Ferdinando, di vincolare il compenso, dovuto a Colombo, al successo dell'impresa. Isabella accettò in prestito la somma raccolta dal banchiere Santangel, impegnando ai rischi per quel primo viaggio solo il suo regno di Castiglia, senza coinvolgere il marito e la sua Aragona, più interessati alla politica mediterranea (sebbene da entrambi i sovrani venne rilasciata a Colombo l'autorizzazione scritta a partire per le Indie, senza la quale Colombo e il suo equipaggio sarebbero stati facilmente sopraffatti dai portoghesi).
I finanziamenti -come sappiamo- non provennero solo dalle casse reali (in misura peraltro assai modesta), ma anche da mercanti e banchieri genovesi e fiorentini, dagli abitanti di Palos, che, condannati per un fatto di pirateria o di contrabbando, furono costretti a fornire due delle tre navi, e infine dallo stesso Colombo, che dovette provvedere per circa 1/3 delle spese al noleggio della terza nave, ai salari dell'equipaggio, al costo delle vettovaglie e ad altre cose.
La lettera servì appunto per rassicurare il suo "sponsor" più influente, con dovizia di particolari e di buone promesse, che il viaggio aveva avuto un felice esito e che i prossimi sarebbero stati ancora migliori. 
Colombo la scrisse con la falsa dicitura: "All'altezza delle isole Canarie", per non rivelare ai portoghesi (padroni delle Azzorre, mentre gli spagnoli avevano occupato le Canarie nel 1402) la sua rotta di ritorno dal Nuovo Mondo, che poi per quattro secoli resterà immutata. Non dobbiamo infatti dimenticare che poche settimane prima d'essere accolto a Barcellona, con grandi onori, dai re spagnoli, quello portoghese, Giovanni II, aveva avuto intenzione di rivendicare come proprie le terre scoperte da Colombo, e solo il timore della forza del nuovo regno spagnolo lo persuase a desistere.
Spedita da Lisbona il 4 marzo 1493, ove Colombo era riparato in seguito a numerose tempeste, la lettera servì per annunciare ai sovrani spagnoli il suo ritorno vittorioso. E' un documento molto interessante, poiché racchiude, in modo sintetico, le principali concezioni di vita del suo autore, le linee fondamentali della mentalità euroccidentale del suo tempo, i presupposti basilari di quelli che sarebbero stati i rapporti coloniali dell'emergente eurocapitalismo col cosiddetto "Nuovo Mondo". Se vogliamo, vi sono anche i primissimi elementi di quelle scienze, come l'antropologia e l'etnologia, che si costituiranno, abbandonando l'etnocentrismo europeo, verso la fine dell'800.
L'importanza di tale lettera venne capita subito: stampata alla fine dell'aprile 1493 a Barcellona, sarà tradotta in latino, italiano e tedesco, conoscendo una vasta diffusione in tutta Europa.


Lo scopo del primo viaggio


Fra gli scopi della missione non appare nella lettera quello d'incontrare il Gran Khan: Colombo lo dà semplicemente per scontato e ne parlerà in altri documenti. Ad es. nel Giornale di bordo scriverà: a partire dal Milione di Marco Polo "è da lungo tempo che l'imperatore del Cataio [Cina] ha chiesto di poter avere dei sapienti che lo istruiscano nella fede di Cristo". Colombo dunque nei confronti del Gran Khan era mosso da due forti esigenze: quella del "gran commercio", per usare un'espressione della lettera in oggetto, e quella della predicazione del cristianesimo.
Colombo, in effetti, non era solo un abile mercante di origine genovese, ma anche un uomo di fede; anzi egli si considerava un "eletto di Dio" incaricato di una "missione speciale": quella di aprire un fronte comune mongolo-cristiano contro l'Islam, che avrebbe preparato il terreno per una nuova crociata a Gersusalemme, al fine di liberare il Santo Sepolcro e ricostituire la cristianità mondiale. Nella Lettera rarissima del 7 luglio 1503, egli, consapevole di vivere in un periodo storico in cui l'ideale della fede, di per sé, non avrebbe potuto muovere nessuno verso la Terra Santa, scrive che senza ingenti finanziamenti, che si potevano ottenere acquisendo giacimenti auriferi, non si sarebbe potuto costituire un potente esercito crociato.
L'idea della "guerra santa" era semplicemente utopica, sia perché l'unico territorio dove ancora si facevano le crociate antislamiche era la penisola iberica, sia perché da almeno un secolo e mezzo la dinastia dei Ming aveva rimpiazzato in Cina quella del Gran Khan; senza considerare che una cristianità mondiale sotto l'egida del papato da almeno 500 anni non l'avevano accettata gli ortodossi, non la stavano accettando le forze laiche nazionaliste e assolutiste d'Europa (in Italia rinascimentali) e non l'accetterà, di lì a poco, il mondo protestante.
Tuttavia Colombo credette nella possibilità di una "megacrociata" sino alla fine dei suoi giorni; anzi, col passare degli anni, quanto più i moventi economici del viaggio e della conquista saranno frustrati da circostanze avverse, tanto più aumenteranno in lui le preoccupazioni di carattere mistico-allegorico, riscontrabili nell'esegesi biblica del Libro delle profezie, ma anche nelle deliranti profezie della suddetta Lettera rarissima.
Un altro motivo del viaggio era, come si è detto, quello di commerciare con le Indie (solo nel terzo viaggio Colombo cominciò a ipotizzare l'esistenza di un "otro mundo"), e addirittura di occupare quanti più territori possibili, esattamente come da diversi decenni facevano i portoghesi a danno di arabi, asiatici e africani.
Infine non vanno sottaciuti i grandi vantaggi personali che Colombo avrebbe ottenuto se l'impresa fosse riuscita. Nei Capitolati di Santa Fe, firmati da entrambi i sovrani, Colombo chiedeva come compenso cose che mai nessun navigatore di quei tempi riuscì ad ottenere: il titolo di ammiraglio per tutti i territori conquistati (equivalente al titolo di grande ammiraglio di Castiglia); i titoli di vicerè e di governatore, con relativi stipendi, per tutte le terre colonizzate; la decima parte di ogni transazione commerciale che avvenisse entro i confini del suo vicereame; il titolo di giudice esclusivo di tutte le controversie commerciali tra Spagna e nuovi territori; il diritto di trasmettere questi privilegi al figlio primogenito.


Scoprire o conquistare?



falconetto



Le armi messe a disposizione dai Re Cattolici per le tre caravelle erano scarse e di tipo convenzionale: bombarde, falconetti, balestre e armi da taglio, che dovevano servire per difendersi in caso di attacco, certo non per occupare uno Stato. Al massimo, seguendo l'esempio dei portoghesi nell'Africa sud-equatoriale, si potevano occupare territori privi di una forte organizzazione. In ogni caso la corona spagnola avrebbe saputo servirsi di eventuali "incidenti", come pretesto per inviare in un secondo momento forze ben più imponenti. Come poi, in effetti, farà. Dunque l'intenzione di questi naviganti e dei loro finanziatori, se non era quella di dichiarare guerra a qualche potenza straniera, era però necessariamente bellicosa, oltre che commerciale, non foss'altro perché solo così essi avrebbero potuto contrastare i grandi successi dei portoghesi.
Infatti, Colombo fa subito notare, nella lettera, che i finanziamenti ricevuti dalla corona avevano sortito l'effetto sperato: "moltissime isole popolate da gente innumerevole" sono state occupate, "con bando e bandiera reale spiegata", cioè con tutti i crismi e secondo il diritto vigente (in Europa), servendosi del notaio di tutta la flotta, Rodrigo d'Escovedo. E questo -sottolinea Colombo- "senza trovare resistenza": il che sta a significare che la facilità della conquista doveva rassicurare i sovrani sul buon esito dei futuri finanziamenti per imprese analoghe.
Già si è detto che Colombo, in quanto cattolico, era un uomo medievale, con preoccupazioni anacronistiche per il suo tempo, comprensibili solo nell'arretrata Spagna; in quanto mercante invece egli era sicuramente più vicino agli ambienti liguri da cui proveniva o a quelli portoghesi che per molto tempo aveva frequentato. Di qui l'estrema contraddittorietà delle sue posizioni.

Il primo impatto

Il suo atteggiamento "imperialistico", che è di derivazione tardo-feudale (vedasi la "Riconquista" spagnola) e che verrà ereditato e anzi approfondito dal capitalismo emergente, a partire appunto dalla sua "scoperta", è ben visibile anche laddove egli, pur sapendo che le isole posseggono il nome attribuito loro dagli "indiani" (popolazioni che non avevano mai avuto alcun contenzioso con gli europei), decide ugualmente di ribattezzarle coi nomi della tradizione ispanico-cristiana: San Salvatore, Fernandina, Giovanna, Isabella ecc.
Colombo giustifica il proprio atteggiamento col precisare che la gente incontrata non si lasciava "incontrare", in quanto "fuggiva dalla paura". Non c'è qui la pedagogia di chi, per poter incontrare una popolazione, lontana dagli usi e costumi euroccidentali, si mette al suo livello e cerca di avvicinarla lentamente, progressivamente, al fine di capirla. C'è invece l'astuzia di chi sfrutta la paura altrui come una buona occasione per imporsi. Colombo, abituato a ragionare in termini di rapporti di forza, timoroso che la "tierra" tanto agognata possa essergli sottratta dal rivale Portogallo, ha scoperto l'America -ha scritto Todorov- non gli americani.




Arawak


Il popolo che per primo Colombo incontrò erano i Lucayo, un sottogruppo Arawak di circa 30.000 persone che abitava le Bahamas e viveva di pesca e di un'agricoltura primitiva, in piccoli villaggi indipendenti di non più di 15 capanne (la divisione in classi era inesistente). Commerciavano coi loro vicini cotone, pappagalli e foglie di tabacco. Gli Arawak erano una popolazione di lingua e di origine amazzonica. Colombo, in una lettera del 25 dicembre 1492 ne parla così: "E' un popolo affettuoso, privo di avidità e duttile, e assicuro le Vostre Altezze che al mondo non c'è gente o terra migliore di queste. Amano il prossimo come se stessi e hanno le voci più dolci e delicate del mondo, e sono sempre sorridenti...nei contatti con gli altri hanno ottimi costumi".
Per poter avvicinare gli "indiani", egli è costretto a "catturarne" alcuni, obbligandoli a imparare lo spagnolo o comunque a comunicare e a fare da interpreti per tutti gli altri indios. Colombo si sente autorizzato a comportarsi così anche perché non scorgeva fra quelle popolazioni "nessun indizio di ordinamento politico". L'assenza di istituzioni lo giudica come un segno sicuro di arretratezza.
Colombo cerca nel "Nuovo Mondo" ciò che assomiglia all'Europa. Non trovando alcun "ordinamento politico", egli ritiene legittimo conquistare ciò che gli appare non difendibile da alcun proprietario in particolare, perché appunto non rivendicato giuridicamente come "proprio". L'assenza di istituzioni gli pare un motivo sufficiente per impadronirsi legalmente della terra e delle risorse altrui. Qui Colombo ha in mente i principî feudali e borghesi della proprietà privata, la cui tutela dipende dalle istituzioni civili oltre che naturalmente dai proprietari "legali" o "ufficiali": non può neanche immaginare che "assenza di istituzioni" e "proprietà comune" si identificano. La proprietà collettiva è, per lui, senza proprietario, ed essendo non protetta dalle istituzioni, può essere soggetta in qualunque momento a esproprio, secondo la legge del più forte.
Colombo è così condizionato dalla mentalità dominante (feudale in Spagna, sempre più borghese nel resto d'Europa, incluso il Portogallo), che persino quando descrive l'ambiente naturale di Haiti (che per lui era il Catai), parla di "usignoli" là dove non sono mai esistiti; e identifica il mondo degli indios con la mitica età dell'oro (Eldorado), secondo i sogni arcadici del Sannazaro e dello spagnolo Juan de la Encina. Per lui "quasi tutti i fiumi trascinano oro" e vi sono "spezie in abbondanza e grandi miniere d'oro e di altri metalli".
Michele da Cuneo, che fece con Colombo il secondo viaggio, racconta nel suo reportage, che le sabbie piene d'oro dei fiumi erano solo nella fantasia di Colombo e dei suoi uomini. Di fatto, egli ne troverà pochissimo, peraltro già lavorato dagli indigeni (delle foglioline, una maschera...). Lo stesso capitano della Pinta, Martin A. Pinzòn, si staccò dal convoglio per scoprire nuove terre e impossessarsi dell'oro, senza però riuscirvi.





colombo e la sua scoperta


Tuttavia, Colombo cercava di vendere fumo anche per garantirsi ulteriori finanziamenti per le future missioni, e forse anche perché, psicologicamente parlando, gli sembrava impossibile che in territori così ricchi di vegetazione non vi fossero importanti materie prime come l'oro e l'argento, la cui scoperta gli pareva imminente. Ancora non gli era balenata l'idea di schiavizzare quelle popolazioni per sfruttarne le risorse, o a titolo per così dire di "risarcimento" per non aver trovato ciò che cercava. Durante il primo viaggio, dopo aver costatato la sobrietà e la semplicità di costumi degli indios, l'unica sua preoccupazione era quella di come dimostrare che occorrevano i finanziamenti per organizzare un secondo viaggio: sia per la ricerca dei giacimenti, che per l'estrazione dei minerali e il loro trasporto in Spagna.


Innocenza e paura

Il tipo di rapporto che Colombo riesce a stabilire con gli indios è alquanto superficiale, basato sulle mere impressioni. Non c'è una vera spiegazione del fenomeno osservato, sulla base delle testimonianze e dei racconti degli stessi Lucayo e di altri gruppi indigeni, ma solo una sua descrizione sommaria, determinata dall'interesse contingente, che però pretende d'essere obiettiva, perché fatta da un osservatore che si sente infinitamente superiore al soggetto incontrato.
E così, la nudità fisica di uomini e donne è la prima cosa ch'egli nota, e gli pare del tutto anomala, segno di povertà, di semplicità e primitivismo (non però di lussuria); l'assenza delle armi viene attribuita alla "paura"; l'estrema generosità con cui offrono quello che hanno alla sprovvedutezza.
In particolare, Colombo scoprì il contrario di quanto s'andava predicando nella Spagna del suo tempo, e cioè che il corpo è fonte di peccato. E' vero che nell'Italia rinascimentale si era verificata una riscoperta del nudo greco-romano, ma solo nel campo artistico, come tentativo di recuperare a livello intellettuale ciò che sul piano della società civile non era più possibile vivere in maniera naturale. Lo dimostra il fatto che proprio nel Cinquecento vi sono delle descrizioni colme di pregiudizi riguardanti la nudità e la sessualità degli indigeni.
Relativamente all'assenza di armi presso i Lucayo, Colombo afferma che ciò dipende dalla paura. Questo però gli appare in contraddizione con la loro robustezza fisica e alta statura (superiori, in questo, agli spagnoli. Da notare che i Lucayo non mangiavano carne di animale, a parte quella dei pesci). Colombo non riesce a comprendere che la paura dell'indio è paragonabile a quella di un bambino disarmato nei confronti di un adulto minaccioso e armato fino ai denti. Egli stesso dirà, più avanti nella lettera, che appena giunse a Guanahanì "catturò con la forza" alcuni indigeni, "perché imparassero la nostra lingua e mi dessero notizia di quanto v'era da quelle parti".




giornale di bordo con firma autografa di Cristoforo Colombo

Ancora Colombo scriverà nel Giornale di bordo ch'essi gli fecero capire -quasi a volersi scusare del loro atteggiamento guardingo e sospettoso- "come in quella terra venissero genti da altre isole vicine con l'intenzione di catturarli, per ridurli in schiavitù" (è da presumere fossero gli aztechi). In ogni caso è difficile pensare a un pregiudizio quando furono gli stessi indios a ritenere gli spagnoli "venuti dal cielo". La paura, di fronte a un "dio", non è pusillanimità ma solo timore, non è vigliaccheria ma solo prudenza.
Colombo invece la considera come un elemento di debolezza che può essere facilmente sfruttato da parte di chi è più forte. Così come potrà essere sfruttata, su un altro versante, l'innocenza della nudità per compiere ogni sorta di abuso sessuale (lo stesso Michele da Cuneo ne fu attivo protagonista). Colombo cioè non si rende conto che se gli indios non hanno armi non è per paura di possederle o di usarle, ma perché sono gente pacifica, per cui non hanno motivo di costruirsele (se non per la pesca). Se l'avesse capito non si sarebbe meravigliato ch'essi non si servivano delle loro "canne con un bastoncino aguzzo in cima" contro l'equipaggio, neppure contro i due o tre dei suoi uomini mandati "in qualche villaggio per trarre informazioni".
Qui è ben visibile la grande differenza tra la paura "fisica" degli indios e la paura "metafisica" degli spagnoli, cioè tra la paura istintiva, immediata, precauzionale, circoscritta a fatti particolari, e la paura profonda, inconscia, radicata in millenni di storia della proprietà privata. Gli indios hanno paura di nemici esterni senza essere abituati ad averla nei loro rapporti interni; gli spagnoli invece vi sono così abituati, nei loro rapporti interni ed esterni, che solo con le armi credono di poterla vincere. La loro grande paura è quella d'aver fatto un viaggio a vuoto: domani sarà quella di poter perdere ciò per cui si erano tanto sacrificati.


Lo scambio ineguale

Colombo, che si rende conto quanto sia difficile convincere qualcuno dell'occidente europeo a credere che gli indios fuggivano dalla paura senza che gli spagnoli avessero fatto loro alcun torto o minaccia, precisa che, nel tentativo di accattivarsi la loro fiducia, offrì "tutto quanto aveva, come stoffa [per coprirsi?] e molti altri oggetti", cioè a dire: "cocci di scodelle, frammenti di vetri rotti e pezzetti di nastro". Nel Giornale di bordo dirà di aver regalato loro "alcuni berretti rossi e coroncine di vetro che si mettevano al collo e altre cosette diverse, di poco valore", ed anche "perline di vetro e sonagli", ricevendo in cambio "pappagalli, filo di cotone in gomitoli, zagaglie e tante altre cose".
Egli quindi non diede loro "tutto quanto aveva" -questo semmai lo fecero gli indios-, ma soltanto ciò di cui poteva fare tranquillamente a meno: in particolare offrì ciò di cui gli indios non avevano alcun bisogno, aldilà delle mere esigenze ornamentali. Da scaltro mercante qual è, Colombo vincola la propria generosità all'interesse e giustifica quella degli indios, di molto superiore, ribadendo la loro povertà! Che poi in altri passi egli affermi d'aver donato loro "mille oggetti graziosi e utili", ciò può essere inteso in due modi: o era aumentato l'interesse, per avere incontrato popolazioni più esigenti, oppure Colombo voleva mostrare le sue buone intenzioni agli occhi dei sovrani spagnoli, che sicuramente avrebbero pubblicizzato la lettera.
Colombo conserva ancora qualche scrupolo medievale quando si rende conto che la generosità del suo equipaggio era più scarsa rispetto a quella incontrata. Obtorto collo è costretto ad ammettere che gli indios, "dopo che si sono rassicurati e hanno deposto questi timori, sono tanto privi di malizia e tanto liberali di quanto posseggono, che non lo può credere chi non l'ha visto". Colombo avrebbe quasi preferito che la paura fosse stata associata all'avarizia, alla cupidigia: l'avrebbe capita meglio, si sarebbe sentito più giustificato nello scambio ineguale. Invece quella inconsueta generosità lo disarma, lo sconcerta: qui ha ragiona Todorov quando afferma che Colombo era un uomo del Medioevo. A patto però di considerare i suoi scrupoli di coscienza come tipici di un businessman di religione cattolica, che mentre predica l'unità politica dei cattolici e il valore universale della fede cristiana, sul piano pratico si trova a difendere i principî laici del Rinascimento e del capitalismo mercantile.
Egli infatti ha chiarissima l'idea che il valore di una cosa non sta solo nell'uso o nella bellezza estetica, ma anche e soprattutto nel suo valore monetario, di scambio contro l'oro. Ecco perché quegli indios "tanto amorevoli" ad un certo punto gli appaiono anche come "bestie senza discernimento". In Colombo si consuma la transizione dal basso Medioevo al proto-capitalismo.
La differenza tra lui e la sua ciurma è solo soggettiva, poiché dal punto di vista oggettivo del rapporto coloniale è del tutto irrilevante. Egli infatti si preoccupa di sottolineare che cercò di proibire l'iniquo scambio quando s'avvide che il suo equipaggio voleva giovarsi della semplicità degli indios per rifilare loro una paccottiglia occasionale. I suoi regali invece erano -come lui stesso scrive- "graziosi e utili".
La differenza, come si può notare, stava semplicemente nel fatto che mentre l'incolto marinaio si limitava ad approfittare dell'innocenza-ignorante per realizzare subito un guadagno, il mercante intellettuale invece vuole guardare in prospettiva, in lontananza, e i suoi regali, in questo senso, non possono essere brutti e insignificanti.
In effetti, anche se, quanto a valore, può rimetterci (il che poi non è), il mercante intellettuale deve pensare a cos'altro potrà guadagnare in futuro, in virtù di quel baratto. Lo scopo dei suoi regali è più tattico rispetto a quello della ciurma rozza e incolta, e si pone a quattro livelli: 1) acquistare la fiducia degli indios (aspetto psicologico); 2) pretendere ch'essi diventino "cristiani" (aspetto etico-religioso); 3) pretendere che diventino "sudditi" della corona (aspetto politico-istituzionale); 4) esigere che lavorino come i "servi della gleba" già presenti in Spagna (aspetto socio-economico). Gli indios -afferma testualmente Colombo- dovranno "raccogliere e consegnarci i prodotti di cui abbondano e che ci sono necessari".
Cioè, d'ora in avanti, gli indios non commerceranno spontaneamente il surplus, ma saranno costretti a fornire quanto occorre agli spagnoli. Colombo, preoccupandosi di non apparire un colonialista (un "portoghese"), precisa, da un lato, che gli indios forniranno i prodotti di cui "abbondano", ma poi, dall'altro, senza accorgersene, fa coincidere il surplus con ciò di cui gli spagnoli necessitano. Il colonialismo, sul piano economico, è già tutto qui sostanziato: specializzazione delle colture indigene sulla base dei prodotti naturali prevalenti, selezionati dalla domanda della madrepatria.



L'ateismo naturalistico


L'altra cosa che colpì l'attenzione di Colombo era l'ateismo naturalistico, spontaneo, di quegli indigeni, in quanto "non professavano credenza né idolatria di sorta". Al massimo essi "stimano che la potenza e il bene stiano nel cielo". Nella loro ingenuità -rileva Colombo- credevano "che io, con queste navi e questa gente, fossi venuto dal cielo".
Perché questa superstizione? Non perché non avessero la scienza, ché, anzi -scrive Colombo-, "sono di ingegno molto sottile, e navigatori esperti di tutti quei mari", tanto che "un nostro battello non tiene loro dietro alla voga" (e questa affermazione la dice lunga sul concetto di progresso e di quello tecnico in particolare); quanto piuttosto perché "non avevano mai visto gente vestita [è da sottintendere: come gli spagnoli], né navigli simili ai nostri".
Col che Colombo ha, senza volerlo, lasciato capire che se nell'ateismo naturalistico di quelle popolazioni vi erano elementi di superstizione che potevano far venire in mente una forma di religiosità primitiva, questa comunque non aveva alcun carattere alienante, poiché da nessuno veniva usata come strumento di potere. Gli indios, alle prese con un fenomeno per loro assolutamente eccezionale, avevano cercato di decodificarlo con le categorie del loro tempo, così come oggi -ma con molte meno giustificazioni- si cerca di spiegare l'origine di certi fenomeni naturali o scientifici, o di certi oggetti cosiddetti "non identificati", appellandosi alla presenza o alla forza degli extraterrestri.
Colombo tuttavia non ha alcuna intenzione di misurarsi alla pari con l'ateismo naturalistico degli indios: anzi, ritiene ch'esso sia il terreno favorevole per indurli a credere nella dottrina cristiana, della quale egli si sente banditore privilegiato. Non solo, ma Colombo cercò persino di servirsi delle loro ingenue superstizioni per affermare un proprio potere. Egli infatti scrive che dopo aver sradicato dai villaggi alcuni indios portandoli con sé in Spagna per apprendere lo spagnolo e diventare interpreti nelle colonie, si accorse che costoro continuavano a credere ch'egli fosse giunto dal cielo. Il motivo di ciò appare poco chiaro. Colombo lascia intendere che la causa stava nella loro ignoranza, ma non sarebbe strano vedere in questo atteggiamento compiacente un modo di sopravvivere al cospetto di un nemico ritenuto più forte.
In ogni caso Colombo non cerca di dissuadere questi indios, che esaltano la sua vanità, dal mutare atteggiamento, anzi li esorta a propagandare la loro fede magica in tutti i villaggi che incontrano. La tentazione di crearsi, in quelle zone "primitive", un proprio "culto della personalità", era troppo forte per non cedervi volentieri. Nel Giornale di bordo dirà chiaramente che durante i primi tre mesi egli conquistò le isole nel nome del re di Spagna e della fede cattolica e, piantando centinaia di croci, s'impadronì delle terre degli Arawak e dei Carib, aprendo il fuoco dei moschetti e dei cannoni per spaventare quei popoli e far credere d'essere venuto dal cielo.
Con una disinvoltura davvero notevole (ma non dobbiamo dimenticare che nelle colonie "tutto era possibile"), egli stava già saggiando quali enormi vantaggi poteva ottenere tenendo strettamente uniti il profitto borghese e la fede cristiana. Per lui cristianesimo e guadagno non erano in contrasto, né, tanto meno, cristianesimo e schiavizzazione del non-credente. La conversione degli indigeni la dava per scontata in un futuro immediato. Egli era convinto non solo di aver potuto conquistare quei territori per volontà divina, ma anche che di ciò avrebbero tratto vantaggio sia la corona spagnola e la chiesa cattolica (coll'ampliare entrambe i propri imperi), che "tutti i cristiani" desiderosi di emanciparsi economicamente.
Da notare che sotto questo aspetto Colombo appare meno cattolico dei suoi stessi sovrani, nonostante sia convinto d'essere un profeta della parusia del Cristo: egli infatti credeva che il mondo sarebbe finito nel 7000, cioè circa 150 anni dopo la sua impresa nelle Indie, per l'esecuzione della quale -egli scrive in una lettera del 1501 indirizzata ai sovrani spagnoli- non gli giovarono "né ragione, né matematica, né mappamondi: si compì semplicemente ciò che aveva detto Isaia". Eppure furono proprio i suoi sovrani a rifiutargli il diritto di vendere gli indiani come schiavi, e la stessa Isabella, nel suo Testamento, che non nomina neanche Colombo, difenderà gli indios.
Ciò naturalmente non ci può impedire di pensare che gli ideali d'uguaglianza del cattolicesimo siano stati usati dai sovrani, in questo frangente, come pretesto per rescindere il contratto firmato coi Capitolati di Santa Fe. E' vero infatti che la corona spagnola s'opporrà a più riprese, sul piano giuridico, alla schiavizzazione degli indios, ma è anche vero che sul piano pratico assumerà sempre un atteggiamento tollerante. Se così non fosse stato, Colombo non avrebbe avuto l'ardire di scrivere che i profitti della sua impresa sarebbero dipesi dallo sfruttamento non solo delle risorse naturali di maggior valore (oro, argento, spezie, cotone, mastice, legno d'aloe, rabarbaro, cannella...), ma anche delle risorse umane, cioè degli schiavi, naturalmente "scelti fra gli idolatri".
Singolare è il fatto che la religione professata da Colombo non manifesti, nella lettera in oggetto, una vera superiorità nei confronti dell'ateismo naturalistico (non scientifico) espresso dagli indigeni. Da un lato, infatti, egli sbarcò su quelle isole convinto di trovare "uomini mostruosi, come molti pensavano" (nel Medioevo e anche nell'Antichità); dall'altro accettò di credere che in una provincia dell'isola di Giovanna esistessero persone "con la coda", o che nell'isola di Matinino (o Guadalupe) vigesse da sempre un totale matriarcato, o che nell'isola di Quaris tutti fossero cannibali dalla nascita e cinocefali, o che in un'altra isola ancora ogni abitante fosse rigorosamente calvo. Colombo arriverà persino a credere che gli indigeni più "buoni" non erano che i superstiti delle dieci tribù d'Israele e che nella regione dell'Orinoco doveva esserci il Paradiso Terrestre!
In effetti, le "amazzoni" di Matinino si accoppiavano solo in una certa stagione dell'anno e solo con uomini della loro razza (carib). Se nasceva un maschio lo cedevano agli uomini, se femmina la tenevano, addestrandola all'arte della guerra. Ma Colombo non riuscì a comprendere che questo atteggiamento non era affatto dettato da particolari leggi "naturali" delle tribù caribiche: anch'esso, al pari dell'antropofagia, era un modo estremo di sopravvivere in una società che si stava disgregando.

La questione del cannibalismo



caribs

A proposito del cannibalismo, va detto che i Lucayo incontrati da Colombo non lo praticavano, né i Taino dell'Hispaniola o Haiti (altro sottogruppo Arawak). Era invece una prerogativa dei Carib, una tribù bellicosa di Haiti, armata di "archi e frecce". Probabilmente -come affermano molti studiosi- il cannibalismo era, in queste popolazioni, un modo di difendersi per non cadere vittime dei tentativi di schiavizzazione altrui. Era un modo disperato di spaventare un nemico ritenuto più forte, o di vendicarsi su di lui: un nemico che aveva bisogno di schiavi per salvaguardare un sistema diviso in classi o basato sulla proprietà privata, già in fase decadente. Si trattava insomma di un rituale a sfondo guerriero e non anzitutto di una risorsa alimentare, né quindi andava considerato come un fenomeno legato a uno stadio ancora primitivo di un'umanità selvaggia. L'altro modo di farsi valere era -dice Colombo- quello di "compiere scorrerie in tutte le isole dell'India, rubando e depredando".
Anche gli aztechi erano antropofagi, ma per motivi religiosi. I sacrifici umani servivano a un sistema ormai privo di legittimità per tenere ideologicamente sottomessa la popolazione. Di fronte all'insofferenza degli schiavi, i capi politico-religiosi esigevano sangue umano da sacrificare agli dèi, al fine di placarne l'ira. Si voleva cioè far credere che essere vittima sacrificale era un onore, poiché così si garantiva la sopravvivenza a chi restava sulla terra.
Quando Colombo afferma, nel Memoriale, che "tra tutte le isole, quelle dei cannibali sono numerose, grandi e assai popolate", non dobbiamo solo pensare ch'egli lo faccia per ventilare l'ipotesi, ai sovrani spagnoli, di un intervento militare nei prossimi viaggi, ma, indirettamente, dobbiamo anche capire che la proprietà comune delle prime società egualitarie incontrate da Colombo era ormai diventata un'eccezione alla regola, in quanto le civiltà schiaviste mesoamericane stavano allargandosi a macchia d'olio.


La capacità d'intendersi

Colombo non riesce neppure a capacitarsi del fatto che sulla base di un'esperienza comune si possano comprendere così facilmente, nei "costumi" e nella "lingua", popolazioni che vivono praticamente divise le une dalle altre, in quel grande arcipelago che poi si chiamerà delle Bahamas. Nel Memoriale del 30 gennaio 1494, sul suo secondo viaggio, egli scriverà che "siccome le genti di un'isola parlavano poco con quelle di un'altra, vi sono alcune differenze nelle lingue, a seconda che vivano più vicino o più lontano". Ciò tuttavia non farà scattare in lui l'esigenza di conoscere le loro lingue, ma, al contrario, quella di costringere alcuni di loro ad imparare lo spagnolo nella madrepatria.
In ogni caso l'intesa di quelle popolazioni lo stupisce. Egli infatti non può aver dimenticato che nella Spagna da cui proviene lotte ferocissime avevano diviso per secoli gli spagnoli di religione cattolica da quelli di religione islamica. Era difficile comprendersi persino tra persone aventi interessi comuni, come dimostrerà la rivolta haitiana di Francisco Roldàn all'autorità di Colombo.
Questo può spiegare il motivo per cui nella seconda spedizione Colombo permetterà che sei indios vengano arsi vivi semplicemente perché avevano sepolto alcune immagini di Cristo e della Vergine, convinti di poter ottenere un miglior raccolto di mais. Sarà proprio a partire dal secondo viaggio ch'egli comincerà a sterminare alcune tribù che non volevano lavorare il cotone per gli spagnoli. Nel 1495 egli trasferirà a Cadice ben 500 indigeni.



La capacità di difendersi



indios


Non tutte le popolazioni autoctone erano così pacifiche come le descrive Colombo. Il contingente militare di 38 coloni, lasciato a Navedad, cittadina fondata sulla costa di Hispaniola, per difendere le proprietà conquistate col primo sbarco, venne decimato dai "camballi" (cannibali) dell'isola, a causa delle continue razzie d'oro e di donne. Questo perché già tra la ciurma del primo viaggio vi erano stati molti avventurieri desiderosi d'arricchirsi facilmente.
Colombo aveva capito subito quanto fossero necessari questi avamposti commerciali-militari, ai fini della "resa" colonialistica, ed era convinto che la guarnigione fosse in grado, da sola, di "spopolare tutta quella terra". "Erano tanto vili -scriverà- che in mille non saprebbero attendere tre dei miei uomini a piè fermo".


Quale alternativa?

Altri elementi conoscitivi Colombo non ne possiede con certezza in questo primo viaggio, e d'altronde non aumenteranno di molto nei successivi, dove anzi i rapporti con gli indios si faranno più conflittuali. Qui egli aggiunge che gli sembra che "tutti gli uomini [i Taino?] si accontentino di una sola donna, ma che al loro capo o re ne concedano fino a venti"; gli pare che "le donne lavorino più degli uomini" e che tra loro abbiano "ogni cosa in comune, specialmente in fatto di cibarie". Colombo non era un antropologo o un etnologo, ma un ammiraglio e mercante: le notizie che ci ha dato sono, per quanto approssimate, ugualmente interessanti.
E' proprio in virtù di quello che ha scritto che è possibile ipotizzare in quale altro modo egli avrebbe potuto incontrarsi con quegli indigeni "pieni di crudeltà e nemici nostri", così come li definisce nella Lettera rarissima, spedita da quella Giamaica ove sentiva d'essere stato abbandonato.
Tuttavia, l'ipotesi di un'alternativa può essere solo puramente teorica, benché, per essere credibile, debba essere verosimile. Di fatto Colombo e il suo equipaggio ebbero la fortuna d'imbattersi in una popolazione che aveva un'antichissima civiltà comunitaria. Al contatto con quella straordinaria diversità di costumi, di vita, di valori, non sarebbe stato innaturale che, da parte degli europei, si cominciasse a ripensare i propri criteri d'esistenza, superando i condizionamenti delle proprie tradizioni antagonistiche. Non lo faranno forse grandi intellettuali come T. More (Utopia), Erasmo da Rotterdam (Elogio della follia), T. Campanella (Città del sole) e F. Bacon (Nuova Atlantide)?




GONZALO GUERRERO



Ciò naturalmente sarebbe potuto avvenire solo in virtù di un rapporto pacifico e durevole con quelle popolazioni, in un confronto capace di promuovere i valori umani universali. Il che, quando accadrà, sarà patrimonio, purtroppo, solo di alcuni singoli esponenti del mondo ispano-portoghese, giunti in America come colonialisti (si pensi p. es. ai gesuiti presso i Guaranì). Gli europei più consapevoli, come ad es. Gonzalo Guerrero, arrivarono persino a muovere guerra contro i conquistadores. Altri invece s'immedesimarono nello stile di vita di quelle popolazioni (ad es. presso i Tupinambas) più che altro per giustificare il proprio libertinaggio.
In ogni caso, grazie a Colombo, indirettamente, noi abbiamo capito che nella storia del genere umano è stato possibile da parte di molte popolazioni realizzare rapporti pacifici ed egualitari tra uomo e uomo e tra uomo e natura, rapporti basati sulla proprietà comune, sul senso del collettivo, sul rispetto integrale della persona.
Distruggendo le culture pre-colombiane (soprattutto quelle pre-schiavistiche), l'uomo ha distrutto una parte di se stesso, e quindi ha perduto l'occasione di uno sviluppo tecnologico più equilibrato, meno devastante dell'ambiente naturale, ma anche l'occasione di un equilibrio sociale e spirituale che non conduce all'isolamento, all'emarginazione, all'individualismo... E' vero, la conquista dell'America ha favorito -come vuole l'ultimo Todorov- la mutua conoscenza del genere umano, l'integrazione di milioni di europei, americani, africani e asiatici in una razza cosmica, universale, anche se a prezzo di uno spaventoso genocidio. Ma è anche vero che un'integrazione senza reciprocità, senza giustizia per tutti i protagonisti, non è che un altro modo di continuare la logica del dominio.



calendario maia in pietra





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